AUTOBIOGRAFIE DI IGNOTI ovvero BARNUM

drammaturgia, regia e interpretazione Elena Bucci

musiche originali dal vivo al pianoforte Dimitri Sillato / Fabrizio Puglisi - luci Loredana Oddone - cura del suono e interventi dal vivo Raffaele Bassetti / Franco Naddei - lampade Claudio Ballestracci - assistente all’allestimento Nicoletta Fabbri
grazie a Virginia Woolf e a Fernando Pessoa

produzione Centro Teatrale Bresciano, Le belle bandiere
con il contributo di Regione Emilia-Romagna, Comune di Russi

debutti
4 novembre 2004, Pianoterra, Rimini [la sfida]
27 agosto 2006, Teatro de Simone, Benevento [l'evasione]
20 marzo 2013, Teatro delle Moline/Arena del Sole, Bologna [barnum]
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Seduta a un tavolino di un bar, che forse è il mio e forse no, guardo la gente che passa, beve, parla, beve, tace, guarda, pensa, beve, ride, se ne va.
Nel mio bar, perché è mio, è sempre notte tarda, poco prima della chiusura, quando gli ignoti appaiono orfani o profughi, naufraghi dall’Occidente.
Fantastico sulle loro vite, su tutte le infanzie e tutte le morti.
Intravedo i sogni inquieti e i legami. In loro mi perdo, mi moltiplico, mi dimentico.
Una patologia, un difetto?
Mi sembrano re e regine, principesse e principi prigionieri dell'incanto.
Il bar somiglia al mondo d’Occidente che muore. Dove sono gli assassini?
Io sto lì come un vampiro inoffensivo, un affettuoso testimone.

Autobiografie di ignoti
Da tempo conduco questo progetto che, partendo da uno studio sull’improvvisazione e la comunicazione tra le arti, si è moltiplicato in molti spettacoli, a seconda degli spazi e delle persone, come fosse un racconto che non finisce mai. In quest’ultimo lavoro, arricchito da nuovi personaggi e da tutta l’esperienza musicale attraversata, affronto sempre la stessa magica sfida: la creazione di un racconto che scivoli dalla poesia all’improvvisazione, dal racconto al canto, dalla danza al piccolo gesto quotidiano.
Tutti i lavori sono ambientati in un bar, che sembra attraversare epoche diverse e luoghi lontanissimi tra loro. Potrebbe stare in un paese di Romagna come a Sidney, Singapore, Parigi. L’ora è sempre notturna e i personaggi che lo abitano si perdono nelle biografie altrui come nella continua reinvenzione della propria. Si trovano ad allentare i confini usuali che delimitano l’io per lasciare uscire le molte vite di ognuno e per lasciarsi invadere dalle molte vite degli altri. A volte il bar sembra coincidere con isole di calore, a volte diventa specchio di una sensibilità contemporanea orfana di visioni per il futuro, a volte sembra una zattera per profughi che sognano utopie.
In un luogo apparentemente neutro e casuale come un bar, dove anche il contatto più profondo si trasforma in nulla e dove anche attraverso un gesto breve e insignificante ci si può imbattere in qualche verità svelata per distrazione, assisto allo scorrere di tante vite, le invento e in esse mi perdo e mi ritrovo.
Pessoa, maestro nella creazione di eteronimi e nelle moltiplicazioni del sentire e delle identità, è idealmente presente, come creatore di anarchie, al posto d’onore del mio bar. Sta seduto al bancone con il suo cappello, il suo fragile cappotto e un piccolo quaderno nero.
Nello spettacolo si intersecano la mia autobiografia, quella di personaggi che ho incontrato nella mia terra di Romagna, quella di tante persone che ho conosciuto o sfiorato, le invenzioni e le storie che loro mi hanno ispirato, la parola poetica di Pessoa e l’ispirazione alla multiforme visione di Virginia Woolf. Non a caso questi artisti sono vissuti nel medesimo periodo storico, durante il quale si disvelavano alla coscienza individuale e collettiva le vertiginose profondità della psiche e allo stesso tempo prendeva velocità una trasformazione del mondo mai vista prima.
 

Barnum
Il bar che mi ha ispirato si avvicina all’idea di un circo: Barnum è il circo sempre diverso nel quale ognuno si esibisce, attraverso numeri messi a punto con precisione e fanfaroneria, con studiata esperienza o con l’arte dell’improvvisazione, la vertiginosa sequenza dei salti mortali che vanno dalla nascita all’adolescenza alla maturità, passando per le capriole dell’innamoramento, il passaggio nel cerchio di fuoco delle relazioni e la clownerie involontaria di fronte ai mutamenti veloci del nostro tempo. Barnum è un’assemblea di personaggi resistenti, che si tengono bene avvinti alla loro autentica natura per non perdere la gioia irragionevole di stare al mondo. Parlano in poesia, in rima e in musica, per trasformare le vite vere in storie e ballate.
Barnum è una scusa per scrivere senza essere scrittrice, cantare senza essere cantante e danzare senza essere danzatrice, è una lanterna magica di immagini indelebili impigliate nella memoria dove risuonano il mio dialetto, racconti, persone e canti.
Dal mio bar, terrazza affacciata sul disgregarsi del potente mondo d’Occidente ormai privo di una visibile traiettoria, assediato da dentro e da fuori dalla necessità di ricreare i riti del sentimento e i riti della socialità, tento un mio personalissimo racconto di naufragio e salvezza, ridicolo quanto basta e serve.

      manifesto      programma di sala

Il canto e la musica
Il canto è diventato parte integrante del progetto e mi consente di trasformare in ‘ballate’ le biografie altrui – e anche la mia –, astraendole dalla quotidianità che le ha ispirate, a volte citando autori famosi, a volte con improvvisazioni e la creazione di melodie originali.
Una frase banale, che ho sentito ripetere qua e là, può evocare un universo, se solo la si riesca a ritmare e intonare nel modo giusto...
I musicisti che di volta in volta mi accompagnano, sensibilissimi improvvisatori nutriti di jazz e studi di composizione, sono chiamati ad una concentrazione sia creativa che da concerto. Deve stabilirsi tra noi una comunicazione quasi telepatica che trasformi loro in attori e me in musicista, in un equilibrio che ogni volta ci sorprende e ci insegna.

Per un tentativo di sinossi
Ci sono momenti nei quali ci si pone le inutili inevitabili domande da dove vengo, chi sono, dove andrò e via così.
Se l’epoca è particolarmente ostile, può capitare di cadere nella tentazione di tornare nel luogo dove si è nati, in cerca di familiarità e ricordi, calore e scintille di scoperte.
In uno di quei giorni che ‘ti prende la malinconia’, capita di canticchiare le canzoni che hanno sancito le emozioni, reinventando le parole per farle coincidere con la propria autobiografia. Sempre canticchiando capita di prendere un treno per il passato, per poi non ritrovare per nulla i luoghi della memoria ormai trasformati, non riconoscere più i volti, non desiderare affatto di incontrare nessuno se non i molti sé che si è stati nel corso del tempo. Se accade però di incontrare una figura familiare eppure sconosciuta, vestita fuori moda e con un quadernetto nero in tasca che ci fa segno di seguirla senza guardarci negli occhi, senza chiedere il nome, può essere che la si segua, per curiosità del mistero o per speranza.
Questo signore mi porta ad un vicolo che sfocia nel mare, davanti all’insegna di un bar. Entra e io dietro di lui. Sulle orme dell’amata e sensazionale letteratura della metà dell’800, precipito in un clima dove mi riesce facile non sentire le pareti del mio io e di quello degli avventori. Vengo travolta dai loro pensieri, dalle loro storie, elaboro particolari che trasformano ogni vita in un romanzo. E ogni romanzo ha la sua musica e la sua canzone. Monica che non ha studiato ma che ha imparato le dimensioni del sogno e della poesia, il barista che non ha altro scopo che soddisfare tutti i bisogni secondari per fare esplodere l’abbraccio universale, Gigi il proprietario del ristorante vecchio stile, Ofelia solitaria che naviga nel dolore come nello champagne e nomina le mosche per avere compagnia e altri e altri...
Capisco quanto limitato fosse il mio sguardo sugli altri, quanto pericoloso questo bar dove resistenti naufraghi dal mondo d’Occidente si aggrappano ai tavolini come fossero zattere e all’alcool come fosse un abbraccio.
Che fare? Ristrutturare, ricreare, tornare a credere, studiare, creare insieme ad altri, agire, interrogare, scuotere, ribellarsi?
Quando Beo, che ha affittato un brutto cinema di provincia, propone ti tornare alla cooperazione solidale per la ricostruzione del clima culturale, il mio amico sconosciuto ride.
È Ferdinando Pessoa, colui che ha rinunciato a scrivere e a vivere per tentare di guardare tutte le vite, in tutte le città del mondo, dalle terrazze di tutti i bar e di tutti i caffè... colui che ha rinunciato ad ogni appuntamento per navigare nudo nella sua immaginazione. Litigo e discuto con l’autore che adoro.
Si scuotono i tavoli, dondolano le lampade, cadono le bottiglie ed i bicchieri.
Le pareti del bar si aprono come scenari di cartapesta, rivelando molte persone in attesa di entrare, proprio nel momento nel quale noi tutti, dentro, vogliamo uscire.
Ci guardiamo. E ora?
È l’alba e con gli occhi stanchi cominciamo a camminare verso un futuro sconosciuto, tutto intessuto di appuntamenti, progetti, cadute, tentativi, speranze...
In questo salto, vedo tutte le infanzie e tutte le morti, vedo diventare tutti bambini e tutti re e regine, principesse e principi.


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foto Archivo Nomadea

  
 
  
 
 
 
foto Piero Casadei
 
 

diretta Rai Radio 3, Sala A via Asiago, Roma, 8 luglio 2022