QUINTETT

un indimenticabile viaggio negli inferi

di Marco Sgrosso

“… restar vogl’io da sol fra l’ombre oscure
coll’empia compagnia di mie sventure…”

Nel 1989, dopo il “Macbeth” e la ripresa di “Novecento e Mille” realizzati con il Teatro Ateneo di Roma dopo l’uscita polemica da Nuova Scena, Leo decise di tentare un’avventura teatrale più ristretta e compatta.
Dopo l’amato Shakespeare, Dante e Totò, i Tragici Greci sono sempre stati una grande fonte di ispirazione per la sua creatività, e non a caso a loro sarebbe tornato con l’ultimo spettacolo con la Compagnia, “Come una rivista”, dove Elettra, Edipo, Antigone, Creonte, Clitemnestra, Ifigenia, Agamennone, Cassandra e Medea, in un’affascinante commistione, si incontravano con Otello e Desdemona, Giulietta, Romeo e Mercuzio.
Ridotta dunque la Compagnia al ‘nucleo storico’ (Elena, Francesca, Gino ed io), con una intuizione geniale Leo intitolò “Quintett” un’immaginaria discesa agli inferi del suo Rimbaud-Orfeo alla ricerca di Euridice, nel corso della quale – in una sorta di viaggio dantesco – incontra le anime dolorose di Oreste e Clitemnestra, Antigone e Prometeo e ascolta per frammenti alternati le loro tragiche storie, triplicandosi egli stesso nella figura straziante di Edipo accecatosi dopo l’orrido incesto con la madre.
Lo spettacolo era di difficile comprensione per il pubblico, l’ardito e geniale montaggio dei diversi testi richiedeva una conoscenza dell’argomento quasi da ‘studiosi’, ma aveva un impatto formidabile sugli spettatori per via della tensione che univa i diversi frammenti e per la compattezza della recitazione, che Leo aveva potuto raggiungere appunto lavorando con i suoi collaboratori più stretti.

Considerato a torto uno degli spettacoli ‘minori’ di Leo, “Quintett” fu invece frutto di un accuratissimo lavoro sia fisico che vocale e ricordo prove meravigliose, che rendono fondamentale nella memoria di un attore l’aver partecipato ad uno spettacolo. Inoltre, per me fu un piacere immenso lavorare sulle parole dei Tragici, impressionanti per la potenza drammatica unita all’incredibile sintesi poetica, soprattutto ricordando che fu proprio grazie al dialogo eschileo tra Oreste e Clitemnestra del mio provino del 1983 che Leo mi aveva chiamato in compagnia.
Leo era molto stimolato dalla circostanza di lavorare con quelli che considerava in toto i ‘suoi’ attori e nei quali riponeva grande fiducia, e fu questa la prima volta in cui ci consentì una totale autonomia, nella scelta del personaggio e in gran parte dell’impostazione del lavoro.
Il consueto lavoro sulla voce fu particolarmente accurato, sia nell’impostazione dei monologhi dei personaggi che nell’esecuzione collettiva dei cori, che portò alla composizione di autentiche partiture vocali con pause, cambi di ritmo e registro, parole spezzate, accenti tonici invertiti, respiri e sospensioni. Ovviamente, durante le prove, non mancarono obbrobri esecutivi che provocavano una generale e condivisa ilarità. Ma determinante fu anche il lavoro fisico.
I protagonisti tragici portavano in campo una forza e una compressione che era necessario restituire in un tempo in cui le loro parole di pietra rischiavano di suonare troppo ‘ingombranti’.
Così il lavoro sulla ‘presenza’ fu importantissimo e fu una vera e magnifica sfida mantenere l’attenzione del pubblico a dispetto delle difficoltà di comprensione del testo.
Illuminati da una livida ribalta, Clitemnestra e Oreste (Elena e Gino) si fronteggiavano scorrendo di profilo come su un binario nella grande scena del matricidio. L’Antigone di Francesca correva in cerchio sbattendo contro invisibili ostacoli, mentre il mio Prometeo pronunciava il primo monologo capovolto con testa e braccia come incatenate al suolo e l’ultimo accompagnato dalle percussioni della batteria suonata in scena da Leo in un crescendo di vibrazione di corpo e voce che alludeva allo sforzo immane della sua ribellione agli dei e alla dannazione della punizione.
Accanto a Leo nella consueta ‘divisa’ in velluto nero, il mio Prometeo indossava un sobrio completo scuro, l’Oreste di Gino maglia e pantaloni attillati che mettevano in risalto la muscolatura, mentre l’Antigone e la Clitemnestra di Francesca ed Elena erano due spose in bianco, l’una votata al matrimonio con la morte, l’altra mantide-assassina del talamo nuziale.

“Quintett” fu l’unico spettacolo del mio lungo percorso con Leo in cui Maurizio Viani non collaborò alle luci. Tuttavia Leo, dirigendo Paolo Pistarelli, ideò bellissime immagini con l’uso di smaglianti diapositive proiettate in successione su un fondale bianco.
Lo spettacolo ebbe recensioni molto positive e un ottimo riscontro di pubblico nonostante il suo ermetismo. Tra noi quattro c’era forte coesione e grande affiatamento, anche se non mancarono sottili, inevitabili e non sempre piacevoli dinamiche competitive.
Il timore di una claustrofobia creativa, per altro da noi stessi condiviso, unito al desiderio di accogliere il respiro di nuove presenze, condussero Leo ad allargare il lavoro successivo alla partecipazione di attori. Ma l’esperienza di “Quintett” fu molto forte per tutti noi, e ricordata in seguito con nostalgia e con il proposito di ripeterla.

[uno stralcio di questo testo è stato pubblicato nel volume La terza vita di Leo, a cura di Claudio Meldolesi, Angela Malfitano, Laura Mariani, Titivillus, Corazzano (PI) 2010, pp- 138-139]