CIAO A UN MAESTRO E POETA DELLA LUCE
a cura di Chiediteatro
25 gennaio 2012
"Ciao a un maestro e poeta della luce" è un titolo coniato dalla stessa Elena Bucci per ricordare Maurizio Viani. L'abbiamo intervistata per farci raccontare la sua collaborazione professionale con Maurizio Viani, che l'ha accompagnata nella sua carriera di attrice fin dal primo spettacolo con Leo de Berardinis, fino al suo recente "Antigone" con la compagnia Le belle bandiere, di cui ha curato anche la regia e il piano luci.
Quando è nata la collaborazione con Maurizio Viani?
Desidero prima fare una premessa. Sono molto felice che esca questo Speciale su di lui, ma so anche che in nessun modo potrò rispondere adeguatamente a queste vostre domande. È troppo importante, troppo lungo il mio rapporto di amicizia e collaborazione con Maurizio e troppo recente la sua partenza perché io riesca ad essere sintetica e precisa come a lui piacerebbe. Comunque ci proverò.
Conosco Maurizio da quando ho cominciato a lavorare in teatro, con Leo de Berardinis, nel primo Re Lear che allestì a Bologna, produzione del Teatro Testoni ora Arena del Sole.
Da quel momento in poi, nel quale ci squadrammo con attenzione, il nostro rapporto di collaborazione ed amicizia si è andato sempre più approfondendo, attraverso la confidenza e la realizzazione di molti spettacoli. È stato maestro e amico, abbiamo litigato furiosamente e abbiamo creato, senza bisogno di dire una parola, scene che giudico bellissime, fatte di una grande vicinanza nel sentire le emozioni e il teatro.
Mi è stato vicino nei lavori importanti di Leo, da Amleto – e spesso mi ricordava quanto fossi giovane allora per il ruolo di Gertrude e quanto fosse difficile per me riuscire a muovermi in quelle splendide luci, precisissime, sezionate, ritagliate in un buio perfetto che dovevo percorrere in un secondo per trovarmi con il viso perfettamente inquadrato da un sagomatore! - al Ritorno di Scaramouche, nel quale, con la maschera bianca, interpretavo il ruolo di una Morte grottesca e tragica. Nella scena finale, la velocità delle mie braccia si calibrava con la sua abilità manuale di artista per dare la sensazione di due vere ali che si muovevano avvolte dalla musica di Bach. Non c’era nessun effetto speciale con il quale rispondere alle domande del pubblico ammirato: soltanto sincronia e una graduale trasformazione della luce in buio.
Come era lavorare con lui? In che modo stabilivate il piano luci dei vostri spettacoli?
La sua partecipazione artistica agli spettacoli di Leo era determinante. Insieme, per ore, parlottando nel buio della sala, studiavano gli spazi, creavano scene esuggestioni. Siamo sempre stati abituati a non distinguere tra voce, testo, gesto, luce, spazio. Spesso la risoluzione di un dialogo avveniva trovando la luce giusta.
Noi attori siamo stati privilegiati dalla sua presenza attenta e critica a fondo sala: una volta acquisita la confidenza, sapevamo di poter contare sul suo sguardo che, con grande dedizione e grande umorismo, controllava e registrava crescite e cadute.
Allo stesso modo, nel corso di molti anni, l’ho visto formare tanti tecnici, in modi diversi, a seconda delle loro stesse differenze. Ho visto ragazzi e ragazze lucidare il loro talento diventando persone responsabili e attente, curiose e libere. I tecnici con i quali Maurizio ha lavorato, pur passando attraverso i suoi meravigliosi insulti e il fuoco delle sue brucianti e divertentissime considerazioni, sono diventati quasi tutti preziosi custodi del mestiere del teatro nelle sue accezioni più profonde e misteriose che, pur parlando di anarchici, sfiorano una dedizione quasi mistica verso la bellezza del fare le cose al meglio, proprio come vanno fatte. In questo processo si mescolano continuamente il senso della tradizione e la curiosità verso il nuovo. Maurizio era sempre affascinato dalle novità, anche se spesso le malediceva per la sempre più diffusa necessità del computer. Lui adorava invece mantenere il passaggio attraverso le mani, sempre diverso, sempre sensibile, sempre in sintonia con il continuo mutare della scena e degli attori. Precisissimo nel cercare le luci e nell’eliminare i facili effetti, odiava ripetere gli spettacoli: infatti, pur rispettando il disegno, le sue luci non erano mai uguali!
Non sopportava le omologazioni e le costrizioni e soffriva molto della violenza culturale delle luci computerizzate che, per natura e mercato, stanno cancellando anche la sola possibilità del lavoro in manuale. Ogni volta, con lui in consolle, si partiva per un viaggio diverso, a seconda del luogo, del pubblico, dell’energia della serata. E come sentivo se stavo recitando bene o male, se ero autentica o falsa....
Mi chiamava “Madame” e pretendeva moltissimo da me. Una volta lo delusi così tanto che, per un attimo, mi tolse la luce. Fu un attimo. Restai come fulminata. E poi tutto riprese come prima, molto meglio di prima. Non lo consiglio come metodo però!
... Ci ha insegnato a difendere la dignità del nostro lavoro in un periodo storico e in uno stato dove i teatri hanno perso sempre più il loro ruolo naturale e dove la politica culturale ha spesso ignorato le anacronistiche ma necessarie caratteristiche dello spettacolo dal vivo. Ma qui comincia un lunghissimo discorso da affrontare in altra sede...
Dopo l’esperienza con Leo De Berardinis, come si è evoluto il rapporto professionale con lui?
La collaborazione è continuata anche quando ho fondato con Marco Sgrosso la compagnia Le belle bandiere e abbiamo cominciato l’avventura con Diablogues di Enzo Vetrano e Stefano Randisi. Maurizio si presentava alle prove con una profonda conoscenza del testo e delle sue implicazioni e con una serie di curiosità da soddisfare. Tra la sua immaginazione e quello che vedeva il primo giorno di prove scaturiva una meravigliosa conflagrazione. La prima cosa che diceva era che lo spettacolo andava bene così, che non c’era bisogno di lui e che potevamo usare un piazzato o delle candele. Poi cominciava, con la squadra tecnica, a montare decine e decine di riflettori, per eliminarli piano piano nel corso delle prove. La sfida a contenere i costi per il rispetto dell’economia delle nostre piccole e semi indipendenti compagnie, era diventata per lui un generoso atto di sintesi e di ricerca del massimo risultato attraverso il minimo dispendio di tempo e mezzi.
C’è un aneddoto in particolare che vuoi raccontarci?
Una piccola cosa per tutte, che riguarda Le smanie per la villeggiatura, interpretate da quattro attori soltanto e che poi vinse il Premio ETI come migliore spettacolo (gli attori eravamo noi che firmavamo anche la regia): di fronte al problema dei cambi di scena e di casa, scanditi dal sempre preciso Goldoni, Maurizio suggerì, visto che avevamo coperto di bianco le nostre cinque sedie come quando si parte per un lungo viaggio, di far volare semplicemente quella stoffa, girandola dall’altra parte. Ci avrebbe poi pensato lui con la luce a colorarla diversamente, passando dal calore di una casa ricca al triste abbandono di quella più povera.
Quante volte ripeteva che andava contro il lavoro di noleggio della sua stessa famiglia... Era vero.
La magia di certe luci era data dalla loro splendida integrazione con la scena, dal tempo, dal movimento, dall’inclinazione del faro e dalla sua particolare qualità e non certo dalla quantità, dallo sfarzo o dalla ricerca di un facile effetto epidermico.
Poi ha continuato la collaborazione anche quando le due compagnie hanno deciso di percorrere cammini diversi. In quel momento è andato ancora mutando il mio rapporto con lui. Mentre prima era Stefano a stargli accanto mentre io mi muovevo sulla scena con gli attori cercando di interpretare dal palco le luci che mi si muovevano intorno, ora ero io a guardare con lui.
Nei momenti cruciali però, dopo vani tentativi e molto nervosismo, ogni volta scoprivamo che le soluzioni più sintetiche e valide dei passaggi complessi derivavano da una forma di improvvisazione: andavo sul palco e lui creava, poi io rispondevo e così via. In seguito si formalizzavano i tempi e si migliorava la tecnica, ma a partire da un nucleo trovato in questo modo. Ricordo la scena del sogno in Hedda Gabler, o la scena di Lady Macbeth, creata soltanto con dei riflessi che arrivavano da fari in quinta puntati contro delle speciali gelatine che aveva trovato girellando qua e là nei cantieri edili...
Mi ha accompagnato anche nei miei lavori in solo, da Non sentire il male, dedicato a Eleonora Duse, fino a Juana de la Cruz, riuscendo sempre a trasformare gli ostacoli economici e di spazio in geniali soluzioni artistiche. Non dimentico come mi aiutò ad evocare la Duse semplicemente prolungando e sviluppando un uso sapiente di due fari in controluce e come sfruttò i trabattelli da muratore che usavo in Juana come supporti per luci stranissime e autoportanti...
Quanto, quanto ci sarebbe da dire...
Quanto conta il piano luci nei vostri spettacoli e quanto contava il lavoro del vostro light designer?
Concepiva sempre il disegno delle luci in concerto con il movimento delle musiche, degli attori, del susseguirsi delle scene. Lo spettacolo era un vero e proprio organismo, con un suo ritmo e un suo respiro.
Il suo disegno luci era come una sorta di partitura ritmica, nella quale il movimento, il tempo e la sintonia erano fondamentali.
Il primo passo consisteva sempre nell’individuare i grandi momenti di cambio per passare poi ai più piccoli. A volte, nel corso del lavoro, si ribaltavano gli esiti all’improvviso, una volta trovato il cuore del ritmo e la giusta sintesi dell’immagine. “El duende”, diceva lui, e interrompeva quando era svanito...
Credo che si possa comprendere da quanto detto finora che la luce era ed è un elemento importantissimo per il nostro lavoro. Non ci siamo mai serviti di scenografie importanti, ma abbiamo sempre sentito che il nostro modo di lavorare era legato alla capacità di evocazione degli attori in scena e dei tecnici fuori scena. In fondo il cinema e la televisione ci offrono ogni tipo di effetto speciale o di ricostruzione del reale. In teatro mi piace suggerire attraverso il vuoto, la luce, il suono.
Trovo molto vitale affinare dei mezzi al punto da poter cambiare come cambiamo noi. Per questo, anche se stimo molto il lavoro di tutti, una scenografia mi spaventa, mentre una scena di luce mi esalta.
Ogni giorno, dopo ogni replica, si poteva cambiare a seconda delle nuove scoperte e della crescita dello spettacolo.
Maurizio però era ben lontano da teorizzare tutto questo: era talmente ricco di talento che avrebbe potuto creare all’impronta luci bellissime e sempre molto diverse per lo stesso tipo di spettacolo. Era una vertigine pericolosa e lui lo sapeva. Per questo si ancorava saldamente ad un disegno supportato dal pensiero e dalla riflessione e soltanto in seguito mutava e cambiava, nei limiti concessi dal rispetto del lavoro di tutti e senza mai disorientare, ma aiutando.
Era molto importante per lui sottolineare sempre che il suo lavoro aveva senso se si integrava con quello degli altri e se sosteneva lo spettacolo e gli attori. Eppure la sua genialità era tale che la scelta era sempre dolorosa e difficile. Quante volte mi ha letteralmente intontito mostrandomi una serie di luci meravigliose e poi chiedendomi: “Quale scegliamo, Madame?”. La scelta diventava filosofica ed esistenziale e costringeva ogni volta a domande intense sul senso stesso del teatro che andavamo facendo.
Nell’ultimo periodo della sua malattia, pur stando in ospedale, Viani ha continuato a seguire il disegno luci dello spettacolo Antigone che stavate preparando assieme (e che ora è in tournée)….
È forse presto per dirlo e forse non lo dirò mai. Posso soltanto affermare che, ogni volta che andrò in scena e ogni volta che farò uno spettacolo, sentirò Maurizio vicino. Quello che mi ha dato non è soltanto una serie di meravigliose luci o una sequenza di memorie: mi ha regalato una consapevolezza e un sapere che cercherò di interpretare al meglio. Molta della sua energia, come ho già detto, era indirizzata a trasmettere strumenti e non solo a realizzare piani luci.
Di questo non finirò mai di essergli grata, anche se mi ha fatto pagare prezzi che mi fecero piangere e ora mi fanno ridere di cuore e, insieme con me, ridono e sorridono tutti coloro che l’hanno conosciuto.
E il caso, che caso non è, ha voluto che l’ultimo spettacolo fosse Antigone, nel quale si parla di cura e amore per chi non è più, di rispetto della memoria, di riti collettivi necessari alla comunità e di contrasto tra sentire e potere.
Era preoccupato della questione del coro e quando gli descrivevo le soluzioni era molto contento e soddisfatto. Leggeva in ospedale quel testo denso che parlava di morte e io mi maledicevo per non avere pensato che proprio questo sarebbe accaduto. Eppure, fino all’ultimo è stato curioso e forte, anche in questo, maestro. Continuava a ripassare le luci dei vari spettacoli e una volta mi ha detto che erano proprio stati sciocchi, lui e Leo, a non avere montato una camera bianca per Totò principe di Danimarca. Ho capito ancora una volta, in quei momenti estremi, quanto la luce fosse per lui un modo per discorrere con l’esistenza, per scrivere, per pensare, per amare. Era tutto questo a rendere il suo lavoro tanto prezioso.
Ebbe subito l’intuizione di un controluce rosso e di una ferita rossa sul fondale. Discusse poi il piano luci con Davide Cavandoli e con me varie cose che si andavano formando.
Esistono trasmissioni normali, tecniche, telepatiche ed esistono modi di stare in ascolto che sfruttano tutto quello che si può. Davide ed io desideravamo che Maurizio approvasse quello che di volta in volta facevamo e cercavamo di guardare con i suoi occhi.
Non so dire altro se non che il suo lavoro, le sue parole, il senso della sua presenza ci accompagna ancora e sempre ci accompagnerà. I suoi modi di dire, di lavorare, di creare, risuonano e rivivono sempre, nei teatri dove andiamo, ripetuti e ricreati da chi l’ha conosciuto e amato.
(vedi anche "Addio a Maurizio Viani" di Massimo Marino - Corriere di Bologna/BOblog >>)