ETICA, ESTETICA E ARTE DELL'ATTORE

di Elena Bucci

Come?
Sì, tutto come prima
tutto come prima
no, nient’altro, mai
provato sempre
fallito sempre
fa niente
provare di nuovo
fallire meglio
Samuel Beckett

NOTA: due parole su questa intelaiatura
Trattandosi di un tema molto ampio che necessita di una riflessione teorica fondata - che richiederebbe ora un’assenza di altri impegni - che sono ovviamente di teatro - e un tempo che non ho, oltre che di continui raffronti con l’esperienza vissuta e con la progettualità in corso - vorrei precisare che si tratta, al presente, di una intelaiatura che integrerò con l’improvvisazione dal vivo, esattamente come mi accade di fare per alcuni dei miei spettacoli, quelli nei quali esprimo la ricerca più estrema e rischiosa. Soltanto la sbobinatura dell’intervento e un lavoro di revisione successivo mi consentiranno di creare uno strumento utile.
Non ho trovato, nelle condizioni presenti, una via migliore e me ne scuso.

Questo mestiere tutto fatto di parole
Maledetto, maledetto teatro, e andare in tournée non è arte è mestiere soltanto mestiere
Quanti tramonti persi perché bisogna andare in teatro
Ieri hanno urlato, hanno pianto, ieri i fiori e oggi più nulla....
Ho sognato un teatro d’arte, libero dai mercati, che fosse volo aperto
e mi sono trovata nel fango fino al collo
in teatro le convenzioni, le tradizioni, le celebrazioni,
non valgono nulla
chi pretende poi d’insegnarla, l’arte
quello proprio non ha capito niente....
Eleonora Duse

Ringrazio per essere stata chiamata a ragionare pubblicamente intorno a parole e concetti come etica, estetica, lavoro d’attore. Ringrazio che siano stati chiamati degli attori a parlarne, perché spesso vengono lasciati muti.
Proprio un anno fa, ad esempio, una direttrice di un importante festival italiano mi ha detto che non le interessa il teatro d’attore. Le chiesi di farmi qualche esempio di spettacoli d’attore che lei avesse visto e non riuscì a citarne nemmeno uno. Nonostante venissi da repliche molto belle e piene di pubblico entusiasta, provai un senso di solitudine ed umiliazione molto grande, vinta per qualche tempo dalla sensazione che la cultura e il teatro non servissero davvero a nulla, se poi il pregiudizio intellettuale era così diffuso e così candidamente vissuto, senza alcuna consapevolezza. E attenti! non le volevo vendere nulla!
Parliamo spesso e giustamente delle difficoltà ormai quasi paradossali che riguardano il nostro lavoro, leggo e ascolto molte riflessioni teoriche assai interessanti, ma raramente si riflette come ora sulla sua reale pratica e forse è questa una delle più gravi conseguenze di questo periodo di crisi economica, culturale e politica.
Io stessa mi sono trovata in estrema difficoltà nel trovare il tempo e la concentrazione necessaria per dedicare qualche limpido e non distratto pensiero a questo tema e a questa giornata.
Capitombolo, come di certo molti altri, dal lavoro sulla scena a mille altri mestieri, da quello più pratico e semplice a quelli più ostici che riguardano organizzazione ed economia, previsione scaramantica del futuro e devozione a un’idea di compagnia sempre più difficile da realizzarsi.
In tutto questo, mi trovo spesso a condividere con altri gli stessi identici pensieri, le stesse paure, la stessa consapevolezza di avere in qualche modo consegnato ad una politica perlomeno distratta, ad una burocrazia intoccabile e ad intellettuali a volte poco interessati alla natura stessa del nostro lavoro il potere di decidere della nostra arte e dei nostri teatri, dei tempi e dei modi. Lo sappiamo, ci scambiamo pareri e sguardi di intesa, ma non troviamo la via per agire.
Nonostante abbia il desiderio di volgere lo sguardo a ciò che di bello abbiamo e che niente può toccare, non potevo esimermi dall’affermare in breve questo pensiero, che è il primo a farsi avanti quando rileggo il tema della riflessione.
Ma chiudo qui il quadro fosco che, come ci invita a fare Morganti, è bene non non dipingere troppo a lungo, per non corrodere la vena antica dell’ispirazione che dalle piazze dei saltimbanchi ai nostri a volte settari ed esclusivi consessi ci ha spinto a scegliere questa professione ambigua e bastarda, ma allo stesso tempo, talmente ingenua nella sua esibizione di narcisismo e affetti da poter aspirare a specchiare con autenticità, di volta in volta, vizi e virtù del tempo nel quale si muove.
Ma ancora mi sento in difficoltà e, nonostante abbia spesso scritto del nostro lavoro, non riesco ad afferrare ancora il mio pensiero.
Mi domando: abbiamo ancora un vocabolario comune? e ancora: in quest’epoca di fraseggi consunti e di cambiamenti ci capiamo ancora quando parliamo di attori, etica ed estetica?
Mi sia perdonata la pedanteria di indagarne il significato attraverso il vocabolario, ancora riconosciuto come strumento collettivo di orientamento nella lingua.

(Devoto Oli)
etica: dottrina o indagine speculativa intorno al comportamento pratico dell’uomo di fronte ai due concetti del bene e del male, morale, dal greco ethika neutro plurale dell’aggettivo ethikos
estetica: settore dell’indagine filosofica che mira alla definizione e alla classificazione del fenomeno artistico. L’insieme dei fattori richiesti e accettati dal gusto e dal sentimento del bello
attore: interprete di un’azione drammatica rappresentata scenicamente, o della sceneggiatura di un film - chi mancando di lealtà o fiducia nei confronti del prossimo, recita con una certa ostentazione e compiacenza una parte che si è imposta in precedenza - chi prende parte attiva o diretta a una vicenda - nel linguaggio giuridico, chi prende l’iniziativa del processo.

(Zingarelli)
etica: studio della determinazione della condotta umana e della ricerca dei mezzi atti a concretizzarla - insieme delle norme di condotta pubblica e privata che, secondo la propria natura e volontà una persona o un gruppo di persone scelgono e seguono nella vita, in un’attività e simili
estetica: scienza filosofica che ha per oggetto lo studio del bello e dell’arte - avvenenza bellezza - teoria filosofica della conoscenza sensibile
attore: chi recita, interpreta una parte in uno spettacolo - chi partecipa attivamente e direttamente a una vicenda reale - colui che agisce in giudizio promuovendo un’azione privata

Ah come pencolano e scivolano anche i vocabolari intorno a queste tre parolette, come cadono nella tautologia, come esitano, come circondano, come sfuggono, almeno al mio sguardo.
Ecco che sento risuonare parole importanti: bello, bene, male, condotta pubblica e privata, cittadini, comportamento. E l’attore che finge e allo stesso tempo partecipa alla vita vera? ineffabile. Ah. Che nostalgia.

gli attori in sé appaiono come una categoria di egocentrici bugiardi
ed è proprio invece quel pavoneggiarsi, quell’orrore, quell’atteggiarsi che li disvela e li rende teneri e da proteggere, gli attori che si trovano di fronte alla
negazione di ogni diritto
negazione del mestiere e della tecnica
negazione del mistero
bugie narrate da ignoranti sulla loro stessa esistenza
figuriamoci l’estetica
figuriamoci l’etica

Eh no. Il tentativo di definizione non mi serve se non perché moltiplica le suggestioni e i pensieri intorno al tema e alle parole.
Sono tre parolette che sfuggono per loro natura alle definizioni generali: un attore che sia davvero tale non assomiglia a nessun altro e la sua qualità spesso non dipende nè da scelte estetiche nè da scelte etiche.
Una volta che ci liberassimo da pregiudizi, schemi e paure, penso che ci potremmo trovare ad applaudire Eleonora Duse nelle datate commedie di Sardou come Antonin Artaud con il cervello bruciato dal manicomio, Gustavo Modena con il suo commovente amore per la libertà in ogni senso e il suo tentativo di creare una famiglia di attori come Carmelo Bene nel suo narcisismo talmente estremo che si rivolta in solitudine e in un totale sacrificio di sé.
Banale dire che anche estetica ed etica possono mutare radicalmente e con ottime motivazioni, a seconda del punto di vista di ogni essere umano.
È evidente il rischio di perdersi in filosofici cunicoli che forse ci allontanano dal nocciolo della questione che ha molto a che fare con il pensiero, ma anche con la pratica, con il rapporto con la concretezza che tanta parte ha nella definizione della qualità del nostro agire teatrale.
Ritorno allora a cercare di comprendere meglio la sostanza della riflessione.
Cosa ci si domanda in realtà? E quante rifrazioni ha questa stessa domanda?
Ci stiamo domandando se l’ossessione artistica abbia il diritto di travolgere le norme che regolano i rapporti tra le persone e del vivere civile?
Vogliamo indagare quanto l’essere attore per sua stessa natura possa indurre a privilegiare una visione narcisistica dell’esistenza?
Ci poniamo di fronte l’infinita serie di compromessi tra intuizione, desiderio, visione e realizzazione pratica che accompagnano ogni debutto e ogni interpretazione?
Oppure ripassiamo i momenti che si snocciolano ogni giorno di recita - e forse anche di non recita - durante i quali cerchiamo le condizioni per ricreare una prova autentica e il meno inquinata possibile, leggera, concentrata, diretta? Vigile, partecipe, abbandonata?
Non si dovrebbero nemmeno tralasciare i rapporti tra gli attori, i tecnici, i registi, le maestranze, in scena e fuori scena.
Quanto le abitudini e le particolarità di queste relazioni hanno creato, nei vari periodi della storia, la fortuna o la sfortuna dell’arte teatrale stessa, la sua dignità o la sua miseria?
La sua forza di coesione o la sua dispersione?
Quanto abbiamo gioito nel trovare nei teatri o sulla nostra strada persone generose e attente, che ci sembrava di conoscere da sempre e che, in primo luogo per sè stessi e quindi anche per il resto del mondo, mettono a disposizione tempo e sapienza per fare un tratto di strada in comune, fosse anche soltanto l’allestimento di uno spettacolo?
Quanto abbiamo sofferto, quanto abbiamo sofferto nell’incontrare in altri teatri, spesso grandi e ricchi, persone scontente, anche se pagate ogni giorno, anche se fornite di laboratori e uffici, spesso scostanti, sfuggenti, nemiche per convenzione, maldicenti per abitudine?
E vogliamo, appunto, ignorare la difficoltà di mantenere in equilibrio etica ed estetica nel costante rapporto del nostro lavoro con il potere, sia che si tratti di potere politico, che economico, che culturale?
Quanto le leggi del mercato condizionano, ancora una volta, questa delicata relazione, portando spesso a scelte stilistiche e di repertorio lontane da un’autentica vocazione?
Quanto la comunicazione tra artisti, la discussione sincera e il confronto sul proprio agire possono aiutare i singoli e le compagnie a tenere alto il livello di attenzione sulle scelte e sull’agire artistico?
In questa girandola di domande che potrebbero non finire mai generando una serie inestinguibile di esempi e situazioni, mi viene in mente la scena bruciante del film Mephisto, nel momento in cui il divo, trovandosi in condizioni di chiedere aiuto al potere nazista che l’ha idolatrato, viene marchiato con l’epiteto ‘attore’ proferito da un gerarca con tale disprezzo e freddezza da cancellare, seppure per un attimo, i tempi antichi nei quali questa professione era considerata una religione, i teatri greci immersi nella magica luce che derivava da una scelta oculatissima che comprendeva anche una sapienza acustica che ormai abbiamo del tutto perduto, la magia di più recenti palcoscenici illuminati da candele e sospesi in un magico silenzio oppure risuonanti di risate per le denunce irresistibili delle grandi penne del 600 e del 700, sbaraglia ogni divismo, ogni culto, oscura la dedizione ammirevole degli artisti giapponesi che fin da bambini sacrificano tempo e leggerezza alle crudeli leggi della tecnica, la ricerca dei grandi russi, calda ed emozionante, senza pietà per la mancanza di rigore e di concentrazione e così capace di conciliare riso e nostalgia, ci annebbia la visione dei lignei teatri shakespeariani, quando gli attori erano al centro del pensiero e della vita emozionale di moltissime persone, dalle più potenti alle più povere, ci fa sottovalutare il potere di rovesciare il mondo che avevano assunto, a forza di talento e di intelligenza, i nostri gloriosi e folli comici dell’arte.
Mi riporta come in un brutto sogno alla visione del teatro più recente, scatolina dei giochi di gruppi ristrettissimi che detengono il potere e che decretano appunto etica ed estetica di un’arte ribelle che invece, quando è forte, assume sempre su di sè la volontà di denunciare e trasformare l’esistente.
La rabbia contro quella definizione, il dolore di riconoscere spesso giustificati disprezzo e derisione, la rivendicazione dell’esistenza invece di una vocazione che vuole ribaltare il narcisismo in dedizione, il desiderio di compiacere in studio rigoroso dell’autenticità, la convinzione forse folle che l’osservazione del microcosmo di una compagnia di teatro che funziona bene possa essere di aiuto nella costruzione di una società meno disastrata e sfiduciata, mi porta a sgombrare il campo da tutte le possibili rifrazioni sofistiche e filosofiche generali e generiche per farmi mettere spalle al muro, finalmente.
Questa domanda, seppur rivolta alle Belle Bandiere - che in sé non significa nulla, è un nome giuridico, una ragione sociale, se non indica anche un gruppo di persone e una storia, un sogno di vicinanza e condivisione - non può essere intesa e non può avere senso se non diretta ad una persona, ad ogni persona che faccia parte di questo nucleo.
In questa sua specificità, la questione si rivela intensamente teatrale, se teatro significa anche assunzione intensa di responsabilità, estetica, etica e anche civile.
Infatti interpella il singolo, che non può e non vuole nascondersi nel buio del gruppo e che, per incoscienza, sacrificio, vanità o imprescindibile necessità, per ferite antiche, sale sul palco, sotto la luce, sempre solo nell’atto del creare, seppur profondamente in ascolto e in connessione con i compagni di scena e con il pubblico. Oppure sceglie di restare in quinta o a fondo sala, ma sempre per essere attore e responsabile di quell’atto immancabile che soltanto lui o lei può fare, come accendere una luce, creare suono, muovere una quinta. E se quell’atto non avviene, tutto muta e sbanda.
La domanda interpella l’attore, il tecnico, chiunque abbia a che fare con lo spettacolo e con il palcoscenico. Chi? Io?

Ebbene sì. In questo caso interpella me, e le domande, pur restando a migliaia e pur moltiplicandosi, possono trovare risposte nel pensiero e nella linea di azione, che diventano immediatamente concreti e storici di una persona sola.
Non si tratta dunque di autoreferenzialità, ma dell’unica via che ho trovato per riuscire ad essere qui a parlare, non genericamente, libera dalla sgradevole sensazione di offendere la qualità del pensiero con qualche chiacchiera vaga e senza il timore di oscurare, per ignoranza o mancanza di tempo da dedicare a scrittura e analisi, le mille vie che possono esistere in teatro per intrecciare etica ed estetica.

Ancora una volta ho la conferma di quanto, pur non potendo rinunciare ad una struttura gerarchica all’interno della compagnia, l’arte sia uno strumento per sua natura democratico e che autorizza libertà di pensiero e creazione: tutela il singolo, il suo arbitrio poetico, la sua follia, le sue ossessioni e il suo diritto al mistero e ad essere esattamente come è. Fornisce anzi le regole perché questo non sia dannoso alla comunità, perché diventi valore condiviso.
La via è: dire io, senza che questo significhi giusto o sbagliato, né tantomeno unico, né tantomeno efficace e salvifico.
Provo a fare il vocabolario personale di Elena, sempre partendo da quelle tre parolette, attore, etica, estetica... per vostra fortuna ho deciso di lasciare da parte, intrecciare...
Ogni volta che un giovane aspirante attore mi domanda come fare a diventare effettivamente tale, ho imparato a fare una pausa prima di rispondere qualsiasi cosa. Provo a ricordare come mi sentissi io, con tutta la curiosità, il desiderio, l’ansia di avere conferme su un mestiere che si fonda sull’incertezza e sulla variabilità di ogni risultato.
In questi casi etica ed estetica mi spingono a rispondere che non ci sono risposte se non quelle che vengono dalle intuizioni e dall’ascolto di sè e di tutto quello che ci circonda.
Non ci sono strade maestre verso la qualità, forse qualcuna verso la notorietà, ma non sempre, non ci sono garanzie, ma soltanto la possibilità di seguire il talento se c’è e di coltivarlo come meglio si può, senza inseguire strade conosciute ma con la consapevolezza che uno dei compiti del nostro mestiere è proprio quello di annusare il futuro in base alla propria specifica identità che è bello percepire sempre come rivoluzionaria.
Come dice Claudio, la cosa a cui aspirare è fare un testo, un personaggio, una scrittura come solo noi possiamo fare, il che significa dare respiro alle proprie caratteristiche, limarle, affinarle, trasformando i difetti in particolarità.
È proprio questo che ritrovo ogni volta nei grandi testi di teatro, che spesso si danno per scontati: la possibilità, attraverso la scrittura e la sintesi di grandi artisti di teatro, attraverso la loro capacità di essere macchina del tempo, di confrontarmi realmente con la storia del mio mestiere, con le diverse difficoltà che sono state dribblate e attraversate e anche quella di aiutarmi a rivalutare ad ogni prova la funzione di indagine, ribaltamento e creazione che è il cuore del mio lavoro.
L’attore fa di sè stesso strumento e quindi deve conoscersi assai bene, allenarsi, guardarsi, per poi riuscire ad abbandonarsi in scena e nella creazione pura a quella parte di sé che non conoscerà mai e che gli permette di arrivare dove non sapeva che si potesse andare.
Mi appare come un atleta totale, del corpo, dell’anima, della voce, del pensiero, che costruisce piano piano una tecnica sempre più sapiente che gli permette di avventurarsi in salti mortali, acrobazie, mondi sconosciuti. La tecnica, la continua ricerca, l’ascolto diventano il filo che garantisce l’uscita dal labirinto pericoloso della creazione verso l’esito dello spettacolo.
Questo è l’attore o l’attrice che amo e che vorrei essere. Non vorrei fare parte del gruppo dei pappagalli o delle marionette inconsapevoli. Con l’incontro fatale e non credo casuale con Leo ho cominciato subito a vivere la professione di attore come quella di un vero e proprio autore, cercando di costruire una sempre maggiore consapevolezza della scrittura scenica, nella quale si intrecciano il senso dello spazio, della luce, della propria relazione con gli altri.
La parola scritta, l’idea di personaggio, l’intelaiatura dei dialoghi, non sono altro che punti di riferimento all’interno di un mistero ogni volta da scoprire e che muta di sera in sera, di prova in prova.
Siamo sempre in prova.
Questo sentirmi autrice mi ha dato l’incoscienza di scrivere i testi che desideravo dire e vivere e che ancora non avevo trovato scritti da altri, accettandone anche imperfezioni e difetti pur di avere un mezzo per essere quello che sono e indagare le commistioni tra musica e parola, tra improvvisazione e rigorosa ripetizione, tra precisione e lazzo.
Sempre questa concezione ampia dell’arte dell’attore mi ha spinto a voler fondare, con Marco Sgrosso, una compagnia, con tutto il peso che questo comporta e a farlo, pur mantenendo tutti i rapporti esistenti con le compagnie nazionali con le quali abbiamo lavorato, tornando nel piccolo paese dove sono nata per mettere alla prova con un pubblico reale e un deserto culturale il bagaglio prezioso ed elitario della nostra esperienza. Abbiamo creato gruppi di lavoro stabili e abbiamo contribuito a recuperare al teatro, attraverso spettacoli e laboratori, spazi abbandonati e distrutti come il Teatro Comunale, l’Ex macello, la chiesa in Albis del 700, un palazzo gigantesco in campagna. Questo movimento di creazione artistica ha contagiato il pubblico e la politica innescando un movimento virtuoso di ristrutturazione dei luoghi e di rinascita della fiducia, anche in una piccola comunità, nella propria autodeterminazione culturale, pur apertissima a ciò che da fuori arriva.
In questo processo, che ci ha portato dalla frequentazione di ambiti teatrali di altissimo livello a diventare strumenti di diffusione di quanto avevamo su di noi assunto anche in ambienti in apparenza difficilissimi e ostici, rende forse chiara una sfumatura di come si intreccino nel mio operare etica ed estetica fino a diventare sfida, al punto che non riesco più a distinguerle una dall’altra, per quanto si influenzano e si rimbeccano, alimentandosi reciprocamente.
Questo abbraccio, nel quale l’esame quasi religioso - alludendo all’esclusività alla quale mi ha costretto la passione per li teatro - e sempre rinnovato per ciò che riguarda la qualità e l’autenticità, si fonde con le intuizioni e con le visioni degli spettacoli, dei progetti, delle scritture e dei personaggi e ha portato anche a creare una compagnia particolare, nella quale i rapporti personali di vicinanza e interesse si uniscono ad un comune sentimento di ricerca della perfezione dei particolari insieme all’emozione dell’impianto, in un equilibrio spesso commovente.
Pur non potendo avere la forza economica di un teatro stabile, esiste un nucleo di attori, musicisti e tecnici in movimento, che di volta in volta muta, si allarga, si disperde e sempre si ritrova intorno ad un’idea di teatro che mette al centro l’affinamento delle capacità delle persone di creare magia. Questo può accadere anche disponendo di mezzi poverissimi, quando si sappiano creare suggestioni ed emozioni potenti attraverso l’affinamento delle rispettive tecniche e una continua ricerca della sintesi simbolica, del gesto denso, del mistero che permette all’arte di suggerire quanta potenza di sentimento e quanta pienezza ci scorrano accanto e dentro, seppur a volte sepolti e impolverati dalla ripetizione delle abitudini e dalla paura di guardare.
Questa modalità ci ha sostenuto sia nel lavoro di rilettura dei testi ‘classici’ e dei linguaggi che ce li facevano sentire vividi e vicini, che del lavoro di improvvisazione quasi jazz, che dello studio della drammaturgia contemporanea. Inoltre la curiosità e la necessità ci hanno permesso di sperimentare quanto l’abitazione di nuovi luoghi per celebrare il rito collettivo del teatro potesse offrire alla ricerca sull’arte stessa, sulla parola, sulla scrittura.
Il nostro modo di studiare e lavorare, pur non avendo quasi mai interruzioni e pur rendendoci spesso felici dell’incontro forte tra noi, con il pubblico e con gli altri artisti, non ci ha mai spinto a raggiungere posizioni di potere, sia economico che politico.
La nostra forza si è sempre basata sulla sostanza del lavoro teatrale, sulle basi antiche del teatro all’italiana, dalla creazione di progetti alle tournèe, dalla scelta di avere un repertorio a quella di sviluppare sempre di più la capacità di gestire ogni parte del lavoro, dalle luci ai costumi, pur avvalendosi di ottimi collaboratori.
Abbiamo sempre continuato a tenere vive le diverse anime della compagnia, passando dai grandi teatri di tradizione, portandovi spettacoli che erano per noi intensamente contemporanei, ai luoghi più appartati e dispersi, dove abbiamo messo la nostra esperienza al servizio della nascita di comunità teatrali, di progetti, di esperimenti.
Tutto questo è avvenuto per privilegiare la libertà rispetto alle dipendenze, il lavoro con gli uomini rispetto a quello con le scenografie, scegliendo di investire il denaro nelle paghe per le persone e non per le cose.
Allo stesso tempo, questa educazione alla povertà, al continuo maneggìo trasformato degli stessi elementi e al fare tesoro di quello che capita tra le mani, tra casualità e destino, ha portato alla creazione della Scuola, un edificio in campagna preso all’asta dove si dorme, ci si trova, dove si accumulano oggetti e costumi che, in una girandola spesso impensabile, si combinano oramai da anni in composizioni diverse ma affacciandosi identici in diversi spettacoli. Finora ci è andata bene e non vengono ma riconosciuti o visti come ripetitivi, pur garantendo a noi della compagnia suggestioni molteplici e strati di memoria emotiva che spesso aiutano la qualità della recitazione.
Mi fa sorridere ritrovare in Delirio a due gli stessi sgabelli del bar di Autobiografie di ignoti, pur mescolati a lampade di altissimo design come quelle di Claudio Ballestracci.
La precisione di Giovanni Macis come macchinista e il suo senso del teatro l’ha portato ad essere sempre di più in vista come attore, rivelando l’intelaiatura dei piccoli trucchi teatrali della salita e della discesa. Eccolo là, con il suo vestito di scena che cambia soltanto per minimi particolari.
La stessa cosa accade a me che, come un soldatino del teatro, ho creato con la sarta Marta una serie di abiti che mi accompagnano identici seppur diversi, come fossi un fumetto o un’entità che vive più in scena che fuori.
Le luci di Maurizio Viani e lui stesso mi sono stati maestri anche per la definizione dello spazio nella sua essenzialità e per la capacità di evocare mondi a partire dalla prossemica e dallo spazio vuoto. Loredana Oddone, che con lui ha studiato, ne prosegue il cammino innestandovi altri colori e prospettive.
Ma se non io mi fossi intestardita a passare le notti nei campi spostando fari al buio in cerca delle immagini che volevo vedere, non avrei capito realmente la lezione dei maestri che avevo incamerato negli occhi e nel corpo stando sul palco e non potrei ora dialogare con chi crea la luce.
Raffaele Bassetti, incontrato per caso durante l’allestimento di una colonia gigantesca con dipinti, installazioni, suoni e mia drammaturgia durante un Festival di Santarcangelo ha continuato con me e con noi un percorso di ricerca sul suono che lo ha portato a sviluppare un lavoro originalissimo di composizione e drammaturgia.
Sono innumerevoli gli attori, dei quali non voglio stare a dire i nomi, che si sono formati con noi e che poi hanno continuato un loro originale viaggio teatrale, mantenendo una grande vicinanza con la compagnia.
Etica è dunque per me continuo sforzo di armonizzare le reciproche abilità verso un teatro, come disse Leo, popolare di ricerca, dove la raffinatezza dei linguaggi non chiuda le porte in faccia al pubblico, dove la povertà dei mezzi non sia miseria ma segno di libertà e capacità di evocazione a partire dal talento datoci dal caso e dalla natura, dove si trovi sempre il modo per creare e si cerchi di farlo rispettando il continuamente rispolverato - come si appanna facilmente, almeno per me - sentimento dell’autentico e dell’atto e del pensiero che corrispondano più precisamente di altri alla propria natura.
Estetica è anche tentare di dare soddisfazione al mio sguardo sempre vorace e mai contento, sempre in cerca di quell’equilibrio di particolari che mi restituisca in un attimo, guardando la scena o sentendomici pienamente immersa, l’illusione di avere costruito un mondo pulsante e ampio, aperto ad accogliere l’energia pura che si scatena nell’incontro tra attori e pubblico.
Non so affatto perché un oggetto vada bene dieci centimetri a destra o a sinistra e malissimo in un altro luogo, perché una luce debba avere quell’incidenza, quel costume quella brillantezza, quell’attore quella vividezza o la parola quel suono, per non parlare della tessitura della musica.
So però che cerco una composizione che, ad un certo punto, nonostante il brontolio degli altri e grazie alla loro pazienza, trova la sua forma e il suo punto di vibrazione e spesso riscontro che vengono riconosciuti anche dal resto del gruppo e dal pubblico, testimoniando di un sorta di sentimento dell’oggettività dell'arte - attenzione! in forme diversissime! - che, pur non appartenendo a nessuno, ci accomuna e ci avvicina.
Ora, in questo momento di barbarie, di teatri impraticabili se non in stato di abbandono, di povertà, di miopia, dopo avere attraversato luoghi molto belli e ricchi che appartengono ormai al passato del teatro, dopo avere lottato per avere i mezzi per poter fare questo mestiere secondo le sue leggi antiche, sempre attualissime, visto che si basano sulla duttilità dei mezzi e sulle mille possibilità delle loro trasformazioni combinatorie - e posso parlare per ore della magia di un graticcio o della buona acustica di una sala, del rapporto meraviglioso che si può creare tra pubblico e platea come del gelo che generano anche nelle persone più volonterose sale sbagliate e fredde, omologate alle palestre o agli ospedali - penso che la ricchezza che ho nella memoria, nel cuore, nel corpo, trasmessami dall’esperienza e dai miei maestri, possa servirmi a sperimentare un teatro di qualità attraverso mezzi minimi, da poter realizzare in qualsiasi luogo, utilizzando i difetti come potenziale, esattamente come facciamo con i nostri poveri corpi di attori e tecnici.
Ancora citando Leo: può bastare la luce di un semaforo ed un pubblico per fare teatro.
L’importante però è sapere usare anche i grandi mezzi, che avremmo il diritto di avere, senza disperderne il valore e senza travisarne il senso.
Questa via, che di certo sacrifica molta parte dell’estetica e che costringe ad una fatica non piccola di adattamento - e lo visse assai crudamente Maurizio Viani, mago della luce che di recente ci ha lasciato - mi permetterà di creare anche nelle attuali condizioni impervie, mi lascerà libera di non abbandonare la nave. Aspettando che passi la tempesta, che, forse, farà naufragare un mondo culturale e artistico malato e, forse, ne sta già facendo emergere uno nuovo.
Sono curiosa. La mia vita è il teatro o almeno, è stata quella la strada che mi ha permesso di avere la forza di guardare il mondo e gli altri e di provare ad amare entrambi. Non sarà certo una crisi economica o una sciatteria politica che potrà impedirmi di usare questo alfabeto che è l’unico con il quale so parlare.
Ecco qualche bagliore tra arte di attore, etica, estetica che mi riguarda. Qualche lama di luce sull’intreccio tra queste tre paroline, tre ragioni di vita, tre misteri.

c’è un gran vento oggi nell’aria
ma c’è anche una grande tranquillità
parlare d’arte?
no questo no
perché voi pensate che per me sia un ricordo e invece è una speranza
e a parlarne - a fare bla bla bla - mi sembrerebbe di perderne il profumo
è come una favola, se ne parlo, sparisce!
e perché non si continui a dire
‘la Duse non deve sopravvivere a se stessa’
io lavorerò ancora perché io sola so fino a che punto posso resistere...
e imparo ad amare tutte le cose che non sono mie
i fiori, la notte, il mare, l’aria che fugge, la pena di tante creature che non so,
quelli che dormono al di là
- perché non è vero che tutto è perduto morendo -
imparo ad amare anche tante altre cose che ora non so nominare
Eleonora Duse

(intervento di Elena Bucci al convegno C.Re.S.Co. - Coordinamento delle Realtà della Scena Contemporanea, Avigliana (TO), novembre 2014)