IL BERRETTO A SONAGLI

di Luigi Pirandello
diretto da Elena Bucci, Stefano Randisi, Marco Sgrosso, Enzo Vetrano

con Enzo Vetrano (Ciampa, scrivano), Elena Bucci (la signora Beatrice Fiorica), Margherita Smedile (la signora Assunta La Bella, Donna Rocca la Saracena), Antonio Lo Presti (Fifì La Bella), Marco Sgrosso (il Delegato Spanò), Stefano Randisi (fana, vecchia serva)

ricerche drammaturgiche Cristina Valenti - luci Maurizio Viani - scenografia Carluccio Rossi - datore luci e fonico Yannick de Sousa Mendes - macchinista Giuliano Toson - elettricista Alessia Masai - assistente alla regia Gaetano Colella - organizzazione Emilio Vita

produzione: Diablogues - Le belle bandiere, Teatro degli Incamminati, Teatro Comunale Ebe Stignani di Imola

debutto: 26 ottobre 1999 - Teatro Ebe Stignani, Imola (BO)
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Avevamo lavorato insieme a "Mondo di Carta" l'anno passato, uno spettacolo creato da Diablogues e Le Belle Bandiere a partire dalle Novelle di Pirandello. Avevamo percorso i diversi luoghi della visione Pirandelliana: i fantasmi di carta delle novelle, il teatro mentale intuito e contenuto nella pagina scritta, e infine la materializzazione dei personaggi sulla scena. Avevamo rintracciato in questo percorso un unico modo di sentire, che sulla scena trovava rispecchiamento nel reciproco contagio fra personaggi e interpreti, negli slittamenti continui delle identità, nel proliferare delle visioni.
Abbiamo trovato nel "Berretto a sonagli" l'ideale (ma concreta) realizzazione dell'atto di vita reclamato dai personaggi, che hanno iniziato a dettare le proprie ragioni sulla scena evocando immagini, storie sentimenti. Gli attori hanno avuto la straordinaria capacità di prestarsi all'ascolto, animando e dando corpo a un mondo di relazioni umane apparentemente immobilizzato nelle regole, in realtà affacciato sul ribollire del vulcano. Abbiamo visto esplodere un mondo tenuto insieme da ragioni individuali tanto ferree quanto inconciliabili, e nel terremoto che ne è derivato abbiamo còlto i processi e le ragioni della trasmutabilità, della follia, del grottesco pirandelliano.
La visione del mondo di Ciampa: una costruzione che per affermare la sua logica deve chiedere aiuto alla pazzia. La strategia di Beatrice: che ordisce la sua vendetta sul marito come se preparasse un'incontro d'amore, e con la stessa voluttà insegue una strada di solitudine lungo la quale sembra prendere per mano la Nora ibseniana. Poi le ragioni 'primordiali' dei personaggi ai quali è affidata la rappresentazione di una Sicilia apparentemente immutabile: la vecchia serva Fana, tutta dedizione alla 'signorina', in realtà officiante del di lei sacrificio; la Saracena, che mentre afferma l'emancipazione dell'ipocrisia contribuisce a creare per Beatrice una nuova gabbia di finzione nella follia. Poi il fratello Fifì, il delegato Spanò, la madre: figure appiattite in codici comportamentali e sociali marionettistici ma che, come le maschere grottesche descritte da Gordon Craig, accolgono nei tratti sfigurati dei loro volti il disegno tragico di un mondo in via di dissoluzione.
Un laboratorio di verità spalancato sulla follia, come aveva capito il Living Theatre degli esordi che, proprio nel Pirandello di "Questa sera si recita a soggetto", aveva scoperto i procedimenti per fare del teatro un luogo di intensificazione della realtà e di disvelamento dell'illusione. E non sarà un caso che quell'allestimento del 1959 sia qui discretamente citato, nello slittamento di anime fra Beatrice e Commina.
E che importa, infine, sapere se il tradimento si è realmente consumato fra quel marito e quella moglie che (significativamente) non sono mai comparsi in scena? Certo è che la vita dei personaggi – imponendosi – ha ampiamente dimostrato che le visioni, una volta esplose, fanno parte a tutti gli effetti della realtà che le ha prodotte. E che finisce per contenerci. (Cristina Valenti)

«E sfido che ti sei veduto morir nelle mani la commedia! Se manca in essa quello spirito animatore che deve sostener le parti, sicuro che non vi resta altro che una sovrabbondanza di parole e parole e parole! Le parole bisogna animarle perché vivano: [...] Perché tale è sempre il mio dialogo, non fatto mai di parole, ma di mosse d'anima.» (da una lettera di Pirandello a Nino Martoglio, 12 febbraio 1917)

Entrare in profondità nell'iridescente teatro di Luigi Pirandello dà una vertigine, un sperimento. Il gioco dell'opposizione dei contrari è feroce e mutevole: il microcosmo tribale femminile e l'acrobatico razionalismo maschile; la follia e la ragione; la morte e la vita; l'uomo reso fantoccio in lotta per essere vivo, l'attore che cerca lo spessore di un personaggio che solo apparentemente è pura finzione, e il personaggio che chiede all'attore di renderne tutte le mosse d'anima.
Ci sorprende, ci stimola, sbugiarda l'ipocrisia fa lampeggiare diverse verità – tutte possibili – pone problemi teatrali affascinanti, sfide irrinunciabili. Tutti i personaggi del "Berretto a sonagli", apparenti prigionieri di un meccanismo che li rende ridicole marionette, portano con sé la sfida che affascina gli attori: renderli vivi, trovarne le profonde motivazioni, i gesti, gli sguardi, le esitazioni.
Pirandello ci spinge ad entrare in quella zona di ambiguità dove regna il dubbio, che screpola l'apparenza e lascia intravedere un bagliore – la vita? Così la scena – bianco nero come la Sicilia, come la vita allacciata alla morte, come il cinema muto – è in apparenza semplicissima, ma duttile e pronta ad assumere tutti i colori, ogni apparizione e ogni sparizione. I personaggi non hanno classiche 'entrate' e 'uscite', ma durante tuta l'azione sono pronti a spiare, confabulare, scongiurare e tramare, rimuginando le parole per tentare di trasformarle nell'azione parlata che Pirandello cercava.
Non c'è traccia di moralismo, in questo "Berretto", ma sguardo lucido e pietoso anche nelle risata sulla povertà delle relazioni umane, che non riescono ad esistere e a durare senza relegare la verità nelle menti dei folli o nei manicomi.
Ma chi sono i pazzi, qui? Tutto il lavoro è percorso da questa domanda candida, che scatena il grottesco o il dramma. Così il berretto a sonagli – quello che si mette in testai pazzi per sentirli arrivare – con tutto il suo carico di domande e di angoscia, passa da Fana, alla Saracena, a Fifì, a Spanò, a donna Assunta, a Nina Ciampa per arrivare al passaggio finale: tutti lo mettono a forza a Beatrice che, quasi capro espiatorio, come ultimo gesto di tenace follia, lo porge a Ciampa. Sia lui ora a scegliere, nonostante la filosofia.
L'urlo di Beatrice – bèèè – pazza, finta pazza o ribelle, diventa l'urlo di Ciampa con il suo sguardo abbacinato sul futuro, diventa l'urlo di tutti i personaggi di fronte al crollo del loro mondo, diventa l'"Urlo" di Munch di fronte ad un secolo di velocità impazzite.
Gli attori e personaggi si perdono in quella terra di nessuno che è il teatro vivo, quello che Pirandello tanto cercò, scardinando i meccanismi collaudati e noti, aprendo le porte – quante porte nel "Berretto" – squarciando la quarta parete, facendo finalmente entrare in teatro quei sei personaggi in cerca d'autore, quegli attori che lottano contro la costrizione della rappresentazione, quelle domande che svegliano l'attenzione e uccidono la noia della convenzione. (Elena Bucci, Stefano Randisi, Marco Sgrosso, Enzo Vetrano)
 

  
 
foto Tommaso Le Pera