JON FOSSE, UN VENTO LIEVE CHE FERISCE

di Marco Sgrosso

Devo ringraziare Vanda Monaco Westerståhl per l’emozione di avere ‘scoperto’ il fascino moderno e antico al tempo stesso del teatro di Jon Fosse.
Avevo già sentito parlare di questo autore e un filo di curiosità mi legava al desiderio di leggere i suoi testi, alla ricerca come siamo sempre noi teatranti di parole nuove e sorprendenti che in qualche modo preservino la lezione preziosa dei grandi autori classici (penso ai Tragici greci, a Shakespeare e Cechov, ma non soltanto a loro…), ma sommerso di volta in volta da altre impellenze, rimandavo l’incontro ad un momento più propizio.

Poi è accaduto che Vanda mi abbia coinvolto in un progetto promosso dal Dipartimento dello Spettacolo dell’Università di Bologna dedicato alla maschera di Pulcinella, o sarebbe più esatto dire ad una rivisitazione di questo immenso personaggio, ingiustamente confinato ad una visione folkloristica molto provinciale, da cartolina col Vesuvio che fuma sul golfo del mare di Napule, senza neppure il patentino di dignità teatrale riservato dagli studiosi alle maschere della Commedia dell’Arte.
Pochi ma intesi giorni di lavoro diedero vita ad una breve performance che intitolammo ‘Pulcinella versus Pulcinella, ovvero la colpa è sempre della scarpa’ e che presentammo con successo inaspettato in un’affollata serata al teatro dello spazio DMS.
Quello che più mi stava a cuore durante la preparazione di questo piccolo lavoro – grazie anche alla preziosa esperienza vissuta con Leo all’epoca de ‘Il ritorno di Scaramouche’, memorabile spettacolo in cui ognuno degli attori fu sollecitato a reinventarsi senso, movimento e anima delle maschere classiche – era sottrarre Pulcinella da quell’assurdo retaggio di mossette, sberleffi e saltelli che ne caratterizzano l’immagine, recuperando invece il sapore tragico e oscuro, crudele e viscerale della sua maschera.
Pulcinella - essere solitario, maschio ma dentro anche femmina - è animale braccato, ombra aggressiva, sempre affamato e sempre ‘cogitante’.
Chiesi a Vanda di lavorare in questo senso: spezzare il previsto per immaginare altri confini, sottrarre espressività, ed io stesso – impreziosito dalla meravigliosa maschera creata appositamente per me da Stefano Perocco di Meduna – mi muovevo in questa direzione. Occorrevano, ovviamente, parole nuove e un punto di partenza.
Immaginai, per i nostri due personaggi in maschera, di iniziare da una relazione spesso sperimentata ma ogni volta ricca di risvolti interessanti: vittima e carnefice.
Pulcinella 1 (io) tiene alla corda, come ad un rude guinzaglio, Pulcinella 2 (Vanda).
Senza dichiarate distinzioni di sesso, i due Pulcinella sono anime in pena senza drammaticità, l’ispirazione mi veniva da Pozzo e Lucky di ‘Aspettando Godot’.
Nulla accadeva se non che in un tempo indefinito i due Pulcinella, legati da un’ostile ma necessaria indivisibilità, blateravano, inascoltati, pensieri e parole in una lingua alta e bassa, dove il napoletano delle nostre origini sporcava la poesia purissima dei grandi pensieri shakesperiani. Frammenti di Riccardo III, di Amleto e di Ofelia si mescolavano ad alcune folgoranti poesie di Eduardo, e queste a battute più brevi nate dalle improvvisazioni oppure tratte dal nostro ‘epistolario attorico’ (uno spiritoso e irrispettoso archivio di reciproci insulti che da tempo ci scambiavamo scherzosamente via mail) oppure ad una nenia siciliana che Pulcinella 1 canta stancamente tra sonno e veglia mentre Pulcinella 2 tenta una fuga vana e inconsapevole.
L’esperimento di dare alla maschera di Pulcinella un senso nuovo attraverso una lingua insolita fece centro ma per il momento tutto finì lì… e tuttavia il pensiero, anche inconsciamente, è andato avanti.

Dopo qualche mese, Vanda mi propose di condividere con lei - per l’edizione 2012 del Festival Contemporanei Scenari di San Miniato - una lettura tratta da ‘Sonno’ di Jon Fosse, autore da lei tradotto in italiano per una pubblicazione della Titivillus, premiato e rappresentato in oltre 20 lingue nel mondo, ma in Italia (ovviamente!) relegato a situazioni di ‘nicchia’!
E così avvenne il primo magico incontro con la drammaturgia di Fosse, con i suoi personaggi in bilico tra passato, presente e futuro, con le sue incredibili atmosfere sospese dove situazioni apparentemente naturalistiche fluttuano in una dimensione stranamente onirica. Leggendo i suoi testi, mi sono sentito invaso da una nebbia dolce ma pesante che cancella i contorni, attutisce suoni e contrasti, scolora gli eccessi e stende un’impalpabile patina sulle emozioni troppo esposte e sui clamori… eleganza e compostezza ma senza nessuna concessione all’estetismo, un tempo lungo e disteso ma senza il rischio della noia perché una potente ‘suspence’ lega una frase o una situazione alla successiva, la sensazione che ciò che si dice o che accade alluda rovinosamente ad altro e sia filtro di rimandi misteriosi.

Memore di quel nostro esperimento bolognese, e desideroso assieme a Vanda di dargli un seguito, cominciai ad immaginare un’ardita connessione tra la maschera rude di Pulcinella e la parola essenziale di Jon Fosse, parola folgorante e priva di schiamazzi, densa di poesia raggelata e di rimandi ad una musicalità intrinseca di sapore classico.
Come primo timido passo, decidemmo di arricchire la lettura di ‘Sonno’ - realizzata in una deliziosa chiesetta del centro di San Miniato- di un semplice segno per tastare questa possibilità: un prologo in cui Pulcinella 1 entra piegato e stanco portando sulla schiena ricurva Pulcinella 2, appendice umana inseparabile. Poi – alla fine della lettura del testo senza le maschere -, in un epilogo pensato a chiusura di un cerchio di predestinazione, Pulcinella 1 si carica nuovamente sulle spalle il suo inseparabile fardello e si incammina verso l’uscita, memtre la luce sfuma durante il percorso e resta come ultima immagine la sospensione di un viaggio senza una meta annunciata.
Questo esperimento inziale non mi convinse pienamente, sentivo che i personaggi di ‘Sonno’ difficilmente avrebbero potuto avere un senso vestiti della maschera di Pulcinella, eppure nello stesso tempo avvertivo una possibilità di connessione tra l’atmosfera e il sapore di Fosse e il nuovo percorso che cercavamo per Pulcinella.

Dopo ‘Sonno’, ho letto diversi altri suoi testi in una fascinazione sempre crescente, fino a che Vanda mi inviò ‘Io sono il vento’, e fu un innamoramento assoluto a partire dal titolo stesso che suona come uno schiaffo dolce.
Prese così corpo, in maniera più convinta, il progetto di tentare la parola di Fosse in bocca alla maschera partenopea, realizzando una piccola produzione indipendente, sovvenzionata - in mancanza di qualsiasi sostegno economico - soltanto dalla passione di un inaspettato incontro.

Nel pensare alla mise-en-espace di ‘Io sono il vento’ per l’edizione successiva del festival Contemporanei Scenari, pensavo ai due personaggi dell’Uno e dell’Altro come a due fantasmi in maschera, immersi in una quotidianità senza orizzonti, sospesi nel vuoto di un mare senza terra all’orizzonte e in una dimensione atemporale dove la cosa più preziosa sembra essere però proprio la concezione di un tempo fluttuante.
E quest’opera mi è apparsa subito adatta nella sua completezza a proseguire la ricerca di un nuovo senso della maschera di Pulcinella.

Un’altra intuizione mi ha guidato nel lavoro.
Penso che Fosse sia un autore di un’estrema difficoltà per un attore, in particolare, forse, per noi attori italiani, nutriti da una grande scuola di estroversione, cresciuti nel mito di una gloriosa tradizione mattatoriale, che rimanda ai comici dell’arte prima ancora che ai grandi capocomicati maschili e femminili di fine ottocento.
La condizione ‘sotto maschera’ imposta dal personaggio di Pulcinella mi suggeriva un interessante spunto di indagine in questo senso, perché il volto ‘fisso’ della maschera – pur lontano da un’idea di neutralità – costruisce la sua espressività attraverso il lavoro del corpo piuttosto che della mimica facciale.
Il movimento del collo, delle spalle, delle mani, delle gambe, la semplice rotazione o distensione di un dito o del bacino, la sperimentazione di diversi livelli nello spazio e l’esplorazione dell’equilibrio potevano portare noi attori a sentire la forza della parola di Fosse prima fisicamente che mentalmente.
Lavorando sul testo, ho avvertito così la necessità di costruire una partitura di movimenti che si accordasse con quella verbale e musicale del testo.
Abbiamo, soprattutto inizialmente, cercato movimenti lenti ma scolpiti, cercando di evitare il pericolo della formalizzazione e della coreografia, in uno spazio che in Fosse è sempre spazio astratto, anche quando le didascalie ci descrivono case, panchine, cimiteri, finestre e porte. La stessa barca immaginaria di ‘Io sono il vento’ è definita dallo stesso autore ‘un’ illusione’, come pure l’azione, di cui dice che è ‘…immaginaria, non dovrà essere eseguita, è un’ illusione.’

In questo universo dominato da bianchi e grigi, e tutt’al più velato di colori pastello sbiaditi, ho immaginato di sprofondare la maschera di Pulcinella perché potesse smarrire la sua tradizionale trivialità in cerca di un presente inaspettato, sdoppiandosi (doppiamente) nella sua funzione teatrale di ieri e in quella di oggi ma anche nell’Uno e nell’Altro, calata in un universo ignoto come l’Uno affoga in quel mare che mi è apparso più simile ad un lago e sulla cui immobilità leggermente increspata naviga la zattera senza tempo del dramma di Jon Fosse.
Su questa zattera, definita in scena da un semplice netto quadrato di luce che segna i confini, si muove il bianco candido dei costumi di Pulcinella 1 e 2, mentre si rincorrono le parole del dramma, consentendo ai corpi di vivere, dando forma al tempo, definendo un passato che si fa presente e viceversa. Sono parole concrete, che legano i personaggi alla terra-acqua, ad orizzonti dai quali é impossibile evadere.
Così, i due ‘compari’ assumono valenza di individui universali sull’orlo della crisi, vittime consenzienti, impossibilitati a comunicare ma anche a separarsi, prigionieri di un’attesa indefinita e sospesa, priva di dramma e forse per questo altamente tragica, eppure al tempo stesso dolce e a tratti molto comica.

In scena soltanto una panca - a sua volta piccola zattera nella zattera -, su cui sedere, sostare, dialogare, da cui è possibile partire in cerca di un’impossibile evasione ma a cui si può anche tornare senza sentimenti di sconfitta ma piuttosto in cerca di un nuovo stupore, come se il ‘dire’ fosse una scoperta non solo di senso ma anche di suono, agevolati dall’incredibile musicalità della lingua di Fosse che già sulla pagina scritta appare come una partitura sonora.
Ed è così che queste due maschere, meravigliate di essere al mondo, meravigliate di essere in viaggio, simili a vecchi fanciulli che si risvegliano e hanno paura di fare troppo rumore, complici ma anche rivali, possono dialogare sul prima e sul dopo, interrogarsi sul senso della vita e sulla paura della morte, scambiarsi i ruoli di comando e di obbedienza, ed in questo modo attraversare il tempo e deflagrare nella contemporaneità, tirarsi fuori dal buio della filologia e della pietrificazione museale, sbocciare alla luce in modo nuovo, aperto al futuro.

Si è poi verificata una circostanza che mi ha portato ad aggiungere qualcosa nella messa in scena al testo di Fosse.
Non potendo io per impegni pregressi, condividere con Vanda tutto il percorso delle prove per la realizzazione della mise en-space, ma al tempo stesso non volendo lei rinunciare del tutto nè al mio sguardo nè alla mia presenza, è avvenuto uno slittamento di ruoli.
Lei è scivolata dall’Altro all’Uno e un’altra attrice (Ting, in seguito sostituita da Gemma e questa poi a sua volta da Fiorenzo) ha assunto il personaggio dell’Altro, mentre una terza figura è apparsa, assente nel testo originale di Fosse ma forse non così estranea al suo spirito profondo: un Pulcinella 3 che veglia non visto, sugli altri due, spazialmente distante ma sempre presente, terzo fantasma che accompagna il viaggio nel limbo degli altri due.

E come già per la lettura di ‘Sonno’, per non modificare la struttura del testo di Fosse e non interrompere il flusso perfetto della sua musicalità, ho immaginato di aggiungere per questa terza ombra bianca un prologo e un epilogo, in cui far risuonare il sapore di autori che hanno preceduto Fosse nell’interrogarsi sul senso dell’esistenza.
Ed ecco così, ancora, il grande Shakespeare - ‘ah, se questa troppo troppo solida carne potesse sciogliersi struggersi e dissolversi in rugiada…’- e accanto a lui quello che Ingmar Bergman considerava in un certo senso il rifondatore della grande lingua teatrale nordica, August Strindberg, di cui - non certo a caso - ho scelto un breve stralcio dalla sua ‘Sonata di Fantasmi’:

‘Dormi, tu che soffri senza colpa… dormi senza sogni…
Tu, che te ne stai seduto ad aspettare che la terra diventi cielo…
che il cielo diventi mare…che il mare diventi terra…
l’atto che hai compiuto nella collera espialo adesso senza rancore
nulla teme chi non fece il male, è bello essere innocente…’

Concludo, infine, citando una breve ma illuminante impressione di Laura Mariani - compagna preziosa assieme ad Emanuela Bambozzi nel seguire i nostri progressivi passi in questa avventura -, che dopo avere assistito ad una prova ci scrisse: ‘Quanti colori nel grigio di Fosse!’


[Intervento al Convegno ‘Le vie italiane a Jon Fosse’, 12 novembre 2013, pubblicato in “Il castello di Elsinore”, vol. 71, Rosenberg & Sellier, Torino 2015]