LA SCRITTURA ESPLOSA
Qualche osservazione sulle relazioni tra scrittura e scena
di Elena Bucci
Quando da piccolissima mi innamorai dei libri, non sapevo che vi stavo
cercando anche il teatro, luogo dove il rito dell'evocazione diventa da
solitario a collettivo e diverse scritture, in diversi tempi, si
intrecciano. La drammaturgia, con tutti i suoi inciampi e difficoltà,
con la sua testarda vocazione a misurarsi con la realtà, mi rivela ogni
volta il suo fascino sfuggente, la sua forza anarchica di sorella spesso
considerata minore o bastarda della grande letteratura.
Nel corso della mia variegata esperienza teatrale ho avuto la fortuna di sperimentare molte vie per trasformare le parole scritte in magie multidimensionali.
Non posso non citare Leo de Berardinis, mio maestro e mago nel far esplodere la drammaturgia nei molti linguaggi della scena, sempre in cerca di una musica del parlato che si mescolasse al gesto, alla posizione nello spazio e alla luce, per arrivare ad una scrittura scenica complessa eppur semplice e coesa, che poteva anche amorevolmente litigare con la parola scritta originaria. Seguendo il suo esempio ho sempre sentito il linguaggio delle luci, del suono e del canto parte del mio lavoro di scrittura e, accanto all'interpretazione dei testi, ho sempre praticato l'affascinante andirivieni tra creazione in scena e parola scritta, sia per quanto riguarda la rilettura di testi classici, dal Macbeth ad Antigone, che nell'ambito della ricerca sui contemporanei, come nel caso di Pinter, sia nella mia esperienza di scrittura mista ad improvvisazione, illudendomi così di cogliere antiche suggestioni della commedia dell'arte.
Leggendo un testo di teatro, contemplo la carta bianca tra un segno e l'altro come fosse una terra misteriosa, luogo di interlocuzione con l'autore e il passato: uno spazio destinato ad appunti a margine sull'intonazione e il ritmo, le traduzioni e i tradimenti.
Capisco come il drammaturgo si assuma la responsabilità frustrante di sintetizzare l'atto vitale immaginato per la scena e di quella, altrettanto dolorosa, di abbandonare la propria opera al tradimento che deriva anche dal più rispettoso lavoro di messinscena.
Non mi stupisce più, come invece accadde la prima volta che ne lessi, la rabbia di Pirandello contro gli attori, così restii a rinunciare a sé stessi in favore dei personaggi da lui immaginati, né fatico ad immaginare il suo incanto sofferente verso la macchina del teatro, che dimensiona le visioni al tempo e al denaro. Ho imparato ad ammirare la capacità dello scrittore che nel buio del teatro guarda, cercando di coniugare la sua immaginazione alle improvvisazioni degli attori, a volte anarchiche e narcise, ma spesso necessarie al rinnovamento e alla freschezza della lingua per la scena.
E ho sempre più chiaro anche il senso di rancorosa diffidenza che mi assilla quando mi accingo a mettere in scena un testo di un autore che amo, specialmente se considerato classico. Avvicinandomi al periodo delle prove e al confronto con la realtà, temo di essere schiacciata dalla grandezza dello scrittore, comincio meschinamente a spiarne i difetti, a sentirne l'antagonismo. Quello che prima mi entusiasmava diventa un insopportabile vezzo, la struttura ammirevole delle relazioni tra i personaggi diventa una gabbia, la lingua un veicolo per pericolosi birignao ereditati dalla memoria di antiche rappresentazioni.
In un coro di incessanti mormorii sovrapposti, le parole risuonano non soltanto per se stesse, ma anche attraverso innumerevoli saggi critici, recensioni di allestimenti passati, fotografie in costume, regie autorevoli, interpretazioni leggendarie. Si esibisce tutto il corredo della memoria teatrale, spesso sospeso tra rigorose analisi e raccolta di aneddotica casuale corredata da immagini tra il santino e il ricordino funerario.
Nelle prime letture con la compagnia, comprendo fisicamente, mentre la voce si inceppa e le battute suonano false, quanto quelle parole siano state scritte per altri attori e non per noi.
Eppure soltanto attraverso quell'azione di lettura ad alta voce, cadrà la polvere e si rivelerà il disegno. Nel farlo, fingo che il testo sia appena stato scritto e che io sia una delle prime ad averlo tra le mani.
Tutta la mia esperienza professionale e personale si ribella, si rinnova e si modella per lasciare da parte pregiudizi e facili fughe, e animare un duello che trasformato poi in armonico dialogo metta al servizio dello spettacolo la mia personale lingua fatta di tecnica, sporcature della vita ed esperienza sul palco.
In questo magmatico accostamento iniziale sono certa che ognuno degli attori che ho scelto potrebbe incarnare qualsiasi personaggio. Ho spesso fantasticato sugli scambi di ruolo tra uomo e donna, sulla possibilità di imparare tutto il testo a memoria per poi sorteggiare i ruoli in un gioco fantasmagorico e difficile tra caso e possibilità. Non sempre l'attore o l'attrice che sembrano naturalmente portati verso un personaggio ne sono gli interpreti migliori, anzi. Anche in questo caso, diventa importante la duttilità della scrittura di sé che ogni interprete si impegna a fare, attraverso la ricerca della sua lingua e l'allenamento di quel bizzarro accordo di pregi e limiti che è il suo corpo.
Come le note scritte della musica del passato sono soltanto un'ombra di grandi esecuzioni e improvvisazioni che non sentiremo mai, così immagino anche le parole scritte, che induco a non proteggere con cura filologica, anzi. Non è raro che scopra da pessime letture gli spiragli più luminosi per arrivare allo spettacolo e che invece, nel tentativo di raggiungere rigore e perfezione, le battute si accartoccino miseramente. Allora incito gli attori perché le scuotano e le spolverino alla luce della sensibilità presente, così che il linguaggio goldoniano settecentesco possa risuonare brillante, provocatorio e immediato, perché le descrizioni shakespeariane dei paesaggi possano esistere al punto dal fare lo sgambetto a tutti i nostri pallidi tentativi di ricostruire castelli e brughiere con ferro e legno o perché sia restituita ad Ibsen l'asciuttezza sarcastica che ancora diverte e scandalizza, mentre, nel caso di Pinter, la stessa asciuttezza sia di nuovo passata al vaglio del sentimento.
Sono convinta che ogni vero autore si opponga con sguardo critico al tempo in cui vive e ricrei il teatro 'specchio del mondo' che ci aiuta a ritrovare la risata sui nostri limiti, il coraggio dell'utopia e l'azzardo contro la cristallizzazione dell'abitudine e della paura. Per questo dobbiamo accanto a lui lottare per restituire all'opera forza eversiva e voce innovativa, a dispetto del tempo che passa e della tentazione di fare rassicurante museo della letteratura teatrale e non. Al suo fianco lottiamo contro la morte.
Forse a causa di una deformazione professionale, immagino l'autore come il protagonista della sua opera e ne indago la biografia, le foto, ogni scritto. Le introduzioni al testo e le didascalie entrano a pieno titolo nel mio copione. Nell'allestimento di Hedda Gabler, ad esempio, la prima didascalia, che descrive la grande villa tra oggetti, ombra e luce, era diventata partitura corale per suono e voci, come se ogni attore, pur usando un identico testo, esprimesse immagini diverse di affascinanti e solide dimore borghesi, magari recuperando il ricordo di visite ai parenti, di parchi appartati, tetti e balconi, di visioni di viaggi impigliate nella memoria. Le spezzature, le interiezioni, le ripetizioni, erano un rito di evocazione che faceva di molte visioni una unica, invisibile fisicamente, ma resa possibile dal vuoto e dalla luce. Di certo Ibsen non immaginava questo uso della sua didascalia, ma l'affranta e innamorata precisione con cui descrive l'interno da lui immaginato, è una tentazione per impossessarsene ed evocarlo, seppur passando per un tradimento. Ogni spettatore trova così tempo, spazio ed abbandono per immaginare la sua personale villa di Hedda Gabler.
Ne Le smanie per la villeggiatura invece, il primo testo goldoniano con il quale ho avuto il piacere di duellare, era esemplare lo scontro incontro tra la mia esperienza di attrice autrice proveniente da 'scritture sceniche' e improvvisazione, e il 'riformatore' della commedia dell'arte, che da distanze secolari puntava il dito sui vizi degli attori, gli stessi con i quali in ogni tempo si combatte e che il pubblico in qualche modo fomenta e richiede: il narcisismo del divo che devasta i testi a suo favore, l'indulgere in pause, esiti ed atteggiamenti che inducano alla risata facile o all'applauso, la strumentalizzazione dei sentimenti e dei temi al fine di emergere personalmente e non come intelligente strumento e molti, troppi altri.
Sono talmente giuste, le note del Goldoni a questo riguardo, così equilibrate, sono talmente ben scritti i suoi testi, che considero del tutto fuori luogo il mio risentimento nostalgico a difesa dei poliedrici e anarchici comici dell'arte e la tristezza per la loro decadenza attraverso gli epigoni. Eppure questa difesa della 'categoria' – del resto inesistente – è stata una chiave importante per scegliere la via dell'allestimento, per trovare il coraggio di recitare in quattro attori otto personaggi e per osare esibire molti atti di 'illusionismo sciocco' – tipici di una riscoperta novecentesca dell'arte dell'attore, che si appella attraverso Leo o Carmelo appunto a Shakespeare e alla commedia all'improvviso – come, ad esempio, creare un cambio di casa semplicemente facendo volare leggeri panni bianchi che coprono le solitarie cinque sedie in scena per rivoltarli dall'identico lato opposto. Nel finale poi, arrivato come un'illuminazione nei primi giorni di prova, si esprimeva in sintesi tutta la nostra lettura: in un'accelerazione temporale vertiginosa, la stessa noia, la stessa disillusione del tempo di Goldoni diventavano le nostre, attraverso poche battute frantumate del Ritorno dalla villeggiatura, una canzone di Nick Cave, la spoliazione da parrucche e marsine. Indossavo un paio di occhiali da sole e mi accendevo una sigaretta.
Tutto stava nell'atto, e nella nostra convinzione, niente altro, e il pubblico ne riceveva un'impronta forte di freschezza, verità e comicità.
C'è una scena iniziale non scritta, nella quale risuonano le parole registrate dell'introduzione al testo di Goldoni, mentre le nostre quattro figure in maschera si avventurano a mettere in scena l'opera, appoggiandosi sull'arte dell'autore e tradendola. Io giro di spalle, con affetto, una poltrona illuminata, la sua, perché non veda. Come se le maschere, ritornate in vita nei misteriosi cicli della storia, si riprendessero il testo e buttassero via l'autore che le aveva aspramente condannate e forse, derubate? Eppure, nonostante i documenti, la storia e le affermazioni, quanto amore per gli attori e per la commedia dell'arte ho ritrovato in lui., quanta precisione nel registrare e migliorare sfumature dei dialoghi che possono essere nate solo in scena e che maestria nel restituire la possibilità di recitarli ora, facendo sì che 'tutti siano capaci', come risuonò la nota critica di un comico dell'arte a lui contemporaneo. In realtà Goldoni ha fotografato quei segreti dell'agire teatrale che gli attori sapevano comunicare soltanto attraverso il fare e che pochi tentarono di trascrivere. Li ha tramandati, nonostante e oltre i suoi intenti, a noi cialtroni di oggi, che ne facciamo trampolino per nuove letture.
Immaginare Goldoni come uno dei rari testimoni oculari del teatro dell'arte, mi ha dato una chiave anche per Locandiera. Le battute si sono immediatamente accese quando ho incoraggiato gli attori a deformarle con un dialetto, vero o inventato, immaginando che i comici che le recitarono la prima volta parlassero con un'onda aspra e dolce della loro terra nell'accento e poco avessero avuto a che fare con le Accademie. In un lampo ho ritrovato un lungo filo che dal passato mi ha guidato alle grandi maschere del varietà, agli attori della fulgida stagione della commedia all'italiana, alle sue sarcastiche vicende e amare maschere.
La scena iniziale, pur senza parole, risuonava ancora una volta come una didascalia, un invito a smascherare gli stereotipi di immagini settecentesche che ognuno di noi conserva e a ritrovare lo spessore della scrittura di Goldoni al di là del divertimento. Era anche una dichiarazione di impotente distanza: nel buio, su un pezzo di Bach suonato con strumenti africani, si muovevano le ombre mantellate di figure sconosciute che alludevano ad amori e villeggiature, diverbi, pranzi e duelli dei quali possiamo soltanto immaginare uno schizzo senza sentirne odori né sapori. Allo stesso tempo in quell'aria di naufragio in nero trovavo, al di là degli stereotipi, la vicinanza con il nostro tempo, come se entrambi, l'autore e noi, ci fossimo trovati in grandi galeoni scricchiolanti che navigavano verso l'ignoto, Titanic destinati a sparire mentre gli ospiti discutono e si appassionano di eterne futilità, passatempi contro la morte.
Il testo mi è apparso talmente ricco di sfumature, al di là del meccanismo perfetto della struttura e delle scene, che ho tentato di amplificarne l'eco attraverso le scritture senza parole dei cambi scena, dove era concesso a tutti i personaggi un tempo muto per rivelarsi e narrare diversi smarrimenti di fronte ad un mondo che cambia. Anche le uscite di scena erano spesso dilatate in passeggiate lentissime verso il fondale animato da ombre, per restituire quella solitudine dei personaggi che l'autore suggerisce ma non scrive mai. Così il personaggio di Fabrizio, assumendo su di sè battute di altri personaggi 'tagliati' e apparecchiando e sparecchiando, trasportando tavoli e panche nei cambi scena, ha assunto una rotondità particolare, un accento in più di gelosia e rassegnazione. Brilla di lingua napoletana il povero Marchese sovrappeso e sempre affamato, mentre gongola il Conte minuscolo e ricco. Il Cavaliere invece, vittima e carnefice, uomo nuovo senza fronzoli, non sa vivere in realtà un amore con una donna che sia di un ceto sociale tanto distante dal suo e si raggela in una vanità algida e solitaria.
Anche per Mirandolina, che ho cercato di liberare dalla centralità affidatale dalla tradizione ottocentesca per vederla più vera e forse più debole, i segni della scrittura scenica sono stati determinanti: vestito bianco e semplice, niente parrucca, segni della ribellione alle norme di una donna nuova altrettanto quanto le parole del finale che, pur restando le stesse, rivelano una malinconia tutta contemporanea attraverso il tono e l'inchino al pubblico, mentre gli uomini si dibattono come burattini in un palcoscenico dentro il palcoscenico. L'ideale di una libertà serena e felice è ben lontano da realizzarsi anche oggi, nonostante le recenti rivoluzioni etiche e di costume...
Rallentare alcune delle battute delle due comiche sbugiardate nei loro artifici e aspramente insultate dal Cavaliere e farvi assistere la locandiera, mi ha aiutato ad estrarre dal testo ancora una vicinanza tra destini femminili che, seppur diversi, conducono in ogni caso ad una sottomissione dell'intelligenza e della libertà al mondo maschile. Quando Ortensia rivela al Conte che 'siamo due commedianti', una musica di taramin accompagna il triplice inchino al pubblico delle comiche e di Mirandolina, che, sorridendo, denunciano i loro artifici privati e pubblici per piacere, per consolare, per campare e per gioire.
Mi si perdoni la lunga digressione che mescola temi, luci, musica, prossemica e parole. Ho voluto soltanto, evitando qualsiasi scivolosa tesi per la quale mi sentirei inadeguata, aprire squarci, domande, lampi sulle scritture sceniche, a volte sottovalutate nella loro complessità e nel loro rapporto con i testi. La luce, il suono e le registrazioni, elementi apparentemente immateriali, sono anch'essi parte del testo e amplificano la peculiare capacità di evocazione del teatro che suggerisce senza mostrare e senza gareggiare con la meraviglia degli effetti speciali o delle ricostruzioni realistiche ora affidata a cinema e televisione.
Anche per questo non faccio quasi mai uso di grandi scenografie, ma cerco di scegliere oggetti semplici che possano trasformarsi, come le due panche della locanda che da tavolo da pranzo, si fanno a vista stireria e patibolo per il cavaliere e infine palcoscenico per i litigi del conte e del marchese trasformati in burattini, mentre il galeone che ho immaginato alla deriva era evocato dal il suono amplificato di uno scricchiolio di legno e dall'ondeggiare degli attori. I segni di nastro bianco a terra (prima degli illustri maestri del cinema come Lars von Trier in Dogville) diventano villa, salotto o percorso obbligato del destino di Hedda Gabler e il bianco accecante della scena di Santa Giovanna dei Macelli, dove brillavano i lustrini in bianco e nero dei costumi di scena, sottolinea il vuoto della nostra povertà vestita a festa dal lavoro minorile o sottopagato.
Nel palco deserto di grandi scene, dove luce e suono guidano l'immaginazione, le parole diventano ancora più dense e chiare, private di fronzoli e distrazioni e le opere stesse mi suggeriscono una singolare prossemica degli oggetti e degli attori, delle forme del loro mondo. Le parole sussurrano indicazioni di regia.
Così il mondo di Hedda Gabler è una prigione di molti quadrati concentrici, dove salotti fluttuanti, mutando dislocazione, registrano i cambiamenti degli equilibri del potere interpersonale. Il mondo di Locandiera suggerisce in apparenza trasparenze di tulle, luccicori, danza e leggerezza, tessuti volteggianti e leggiadria, ma anche l'odore di marcio e la puzza delle sue città, moltiplicazione di fondali, teatrini nel teatro, corse immediatamente rallentate. C'è sempre un fondo magmatico nel quale si muovono figure spianti, tristi, rimuginanti. Il primo piano è spietato invece, tra l'interrogatorio, la gogna e il trionfo. La sua forma è la spirale che può scendere e salire da un momento all'altro, quasi senza ragione. Per la parola di Shakespeare ho cercato uno spazio ancora più duttile, che potesse variare moltissimo anche attraverso il piccolo spostamento di elementi semplici come panche, sedie, un trono di metallo che sembra una macchina di tortura ed è invece soltanto uno strumento di lavoro delle vecchie cantine scovato da Marco Sgrosso. La poesia è talmente densa che bastano due lenzuola lasciate volare sulle panche per creare il banchetto e una corsa circolare intorno al trono rovesciato per suggerire l'alternanza dei poteri e delle fortune. La forma è circolare e nuda, in consapevole e continuo mutamento, mondo di coscienza alta che si sposa alla semplicità per convincere e raccontare.
Qui, mi fermo, rimandando ad altri luoghi un ragionamento sulla prossemica suggerita dalle parole del teatro e il vano desiderio di poter tradurre in segni, come a volte si è tentato con la musica contemporanea, la complessità della scrittura scenica.
Per il passato abbiamo come aiuto le note di spettatori eminenti, ora anche le riprese e le registrazioni, cosa preziosa se non pretende di sostituire, per motivi economici e in funzione di un'ampia diffusione, il teatro dal vivo. Accanto ad esse spero permanga una scrittura su carta che trasudi dello sforzo di raccontare il teatro. Forse anche questo, attraverso la capillarità delle didascalie, la descrizione di abiti e di luci, ha tentato Pinter: non soltanto di guidare gli allestimenti futuri, ma anche di dare una testimonianza di ciò che erano. Non a caso anche lui praticava molto teatri e scena, aveva adorati attori di riferimento e difendeva allo strenuo la sua opera e la compagnia di fronte al pubblico. Nonostante ne condivida il sentire, ho immaginato per L'amante un'operazione deflagrante: il primo giorno di prove abbiamo registrato una lettura completa, didascalie comprese. Abbiamo fedelmente rispettato il testo, ma moltiplicandolo, rifrangendolo, spezzandolo, sottolineando la poesia dell'asciutta descrizione della scena, confondendo ricordo e realtà, misurando quanto siano stati veloci i cambiamenti che ci hanno portato lontano sia da quel sogno di felicità monofamiliare che dalla sua critica.
Ancora una volta si affacciano gli irrispettosi attori della commedia dell'arte, demoni che spingono a distruggere quanto è ordinato, perché un nuovo linguaggio si ricrei ad ogni epoca, ogni giorno, così come ci condanna l'aleatoria natura della nostra arte. Mondo alla rovescia.
Il testo del grande autore però non perde mai la sua brillantezza e, nonostante il tempo e le sfide, torna a splendere ogni volta che lo si cerca davvero, diventa maestro.
Ne ho fatto più volte esperienza, ricavandone stupore e nuove informazioni che sono state la guida per i miei tentativi di scrittura al contrario: partire dall'improvvisazione per arrivare al testo.
Improvvisazione, è ovvio, non significa agire secondo un impulso momentaneo, ma intessere una struttura, spesso con musica dal vivo nel mio caso, appuntare testi, immaginare una storia o più di una e provarla in esecuzione, saggiando in prova i materiali. È una modalità di composizione che per me è stata l'unica strada per sottrarmi all'incapacità di mettere fine alla stesura di un testo. In questo caso mi riferisco sia a lavori come Le relazioni pericolose o La pazzia di Isabella, redatti con Marco Sgrosso, dove a partire da romanzi e documenti si arriva a una drammaturgia inedita che a testi del tutto originali composti da me. Sia nel caso della scrittura di Non sentire il male, dedicato a Eleonora Duse – la cui natura di regista e drammaturga emerge con forza dalla visione dei copioni da lei sottolineati, tagliati, modificati e dalle testimonianze dei compagni di lavoro –, che di Juana de la Cruz (scrittrice di teatro e poesia, abile autrice di quella famosa Lettera in sua difesa che appare come un monologo pensato per la scena dei potenti della Chiesa e dei letterati) che de La pazzia di Isabella (scritto con Marco Sgrosso ma nel quale era tutta originale e creata da me l'evocazione di Isabella Andreini, un'altra artista che, pur dedicandosi alla scrittura, preferì uniformarsi alla letteratura piuttosto che annotare con precisione quanto facesse o dicesse sulla scena) , ho prima fatto una ricerca molto estesa di materiali, li ho studiati e selezionati, li ho confrontati con le mie personali visioni che ho dimensionato accordandole ai dati storici e i documenti. Soltanto l'improvvisazione però ha saputo aiutarmi nelle scelte definitive. Ho percorso la stessa via quando ho usato come materiale drammaturgico biografie di sconosciuti ai più, storie inventate e, a tratti, la mia stessa biografia.
È stata di aiuto la sbobinatura delle registrazioni di prove o spettacoli dal vivo, cosa possibile oggi e non un tempo e, forse, inibitoria del potere selettivo e cognitivo della memoria. Da un lato scrivo quello che ricordo, dall'altro sbobino, cercando di domare la scivolosità delle parole. Si affacciano mentre scrivo versioni migliori, nuovi personaggi, ammicchi, rime. La rima diventa una guida e un'ancora nell'improvvisazione, ordina e riduce le difficoltà di scelta.
Da questo guazzabuglio torno alla scena, macerandomi nell'attesa di questa esperienza straordinaria che dona tanto ma tanto chiede.
Mi permetto, precipitata dalle vertiginose altezze dei grandi autori ai miei balbettanti esperimenti, di fare riferimento a questa pratica perché mi ha aiutato moltissimo a comprendere la bellezza delle scritture altrui e allo stesso tempo a farle ritornare lingua viva, vicina alla sensibilità di un vasto pubblico che desidera moltissimo incontrare i grandi testi, ma spesso, a causa di interpretazioni sbagliate o pregiudizi, ne ha perso la chiave.
Ho spesso parlato di questo, a pubblici che confrontavano attoniti la freschezza che avevano trovato nello spettacolo con le sensazioni polverose della loro memoria, dove abitava la falsa informazione che il testo fosse un rigido abito indossato da burattini ammaestrati ad esprimere le idee dell'autore, genio solitario chiuso nella sua stanza. Ne ho derivato sparse riflessioni sulla separazione tra cultura esperienziale e sapienziale e sugli analfabetismi derivanti. Proprio per questo sarebbe importante moltiplicare le occasioni di confronto tra chi pratica la scena e chi la scrive, affinché si possa 'litigare' al presente, ritrovare l'arte empirica delle incrociate scritture, così che la materia magmatica del talento dell'attore passi al setaccio dello sguardo dello scrittore e, viceversa, la scrittura si misuri con lo spietato bisogno di autenticità della scena.
Pur nell'apparente attuale tripudio delle comunicazioni, la creazione teatrale si compone spesso attraverso la giustapposizione di cammini solitari, sottoposti a ritmi di produzione che niente hanno a che fare con la gioiosa ricerca collettiva che comprende il tempo dell'errare e dell'errore, rivela nuovi stili e visioni, sorveglia il rischio di esiti troppo autoreferenziali o gelidamente intellettuali, scaldandosi invece dei reciproci saperi. Tutto questo senza perdere di vista la cultura popolare e il cercare, spesso disorientato e confuso, del pubblico.
Questo appello che pare nostalgico nasconde invece il desiderio di ritrovare la rotondità di quella meravigliosa macchina dei segni e dei sogni che è il teatro e che ha bisogno di tempo e di un un concerto armonico delle diverse competenze che simuli una società ideale.
Sarebbe bello che i grandi teatri come le piccole sale diventassero laboratori di scritture, da quella testuale a quella musicale, da quella per immagini alla coreografia, con continui esperimenti per tornare a riunire ciò che abbiamo troppo violentemente diviso: potrebbe ricominciare a respirare un mondo. Ma che sciocca. Sto parlando di ricerca, esperienza che manca a tutti, ora, in Italia. Ricerca per un teatro popolare, un teatro popolare di ricerca, come sognò Leo de Berardinis.
Nel corso della mia variegata esperienza teatrale ho avuto la fortuna di sperimentare molte vie per trasformare le parole scritte in magie multidimensionali.
Non posso non citare Leo de Berardinis, mio maestro e mago nel far esplodere la drammaturgia nei molti linguaggi della scena, sempre in cerca di una musica del parlato che si mescolasse al gesto, alla posizione nello spazio e alla luce, per arrivare ad una scrittura scenica complessa eppur semplice e coesa, che poteva anche amorevolmente litigare con la parola scritta originaria. Seguendo il suo esempio ho sempre sentito il linguaggio delle luci, del suono e del canto parte del mio lavoro di scrittura e, accanto all'interpretazione dei testi, ho sempre praticato l'affascinante andirivieni tra creazione in scena e parola scritta, sia per quanto riguarda la rilettura di testi classici, dal Macbeth ad Antigone, che nell'ambito della ricerca sui contemporanei, come nel caso di Pinter, sia nella mia esperienza di scrittura mista ad improvvisazione, illudendomi così di cogliere antiche suggestioni della commedia dell'arte.
Leggendo un testo di teatro, contemplo la carta bianca tra un segno e l'altro come fosse una terra misteriosa, luogo di interlocuzione con l'autore e il passato: uno spazio destinato ad appunti a margine sull'intonazione e il ritmo, le traduzioni e i tradimenti.
Capisco come il drammaturgo si assuma la responsabilità frustrante di sintetizzare l'atto vitale immaginato per la scena e di quella, altrettanto dolorosa, di abbandonare la propria opera al tradimento che deriva anche dal più rispettoso lavoro di messinscena.
Non mi stupisce più, come invece accadde la prima volta che ne lessi, la rabbia di Pirandello contro gli attori, così restii a rinunciare a sé stessi in favore dei personaggi da lui immaginati, né fatico ad immaginare il suo incanto sofferente verso la macchina del teatro, che dimensiona le visioni al tempo e al denaro. Ho imparato ad ammirare la capacità dello scrittore che nel buio del teatro guarda, cercando di coniugare la sua immaginazione alle improvvisazioni degli attori, a volte anarchiche e narcise, ma spesso necessarie al rinnovamento e alla freschezza della lingua per la scena.
E ho sempre più chiaro anche il senso di rancorosa diffidenza che mi assilla quando mi accingo a mettere in scena un testo di un autore che amo, specialmente se considerato classico. Avvicinandomi al periodo delle prove e al confronto con la realtà, temo di essere schiacciata dalla grandezza dello scrittore, comincio meschinamente a spiarne i difetti, a sentirne l'antagonismo. Quello che prima mi entusiasmava diventa un insopportabile vezzo, la struttura ammirevole delle relazioni tra i personaggi diventa una gabbia, la lingua un veicolo per pericolosi birignao ereditati dalla memoria di antiche rappresentazioni.
In un coro di incessanti mormorii sovrapposti, le parole risuonano non soltanto per se stesse, ma anche attraverso innumerevoli saggi critici, recensioni di allestimenti passati, fotografie in costume, regie autorevoli, interpretazioni leggendarie. Si esibisce tutto il corredo della memoria teatrale, spesso sospeso tra rigorose analisi e raccolta di aneddotica casuale corredata da immagini tra il santino e il ricordino funerario.
Nelle prime letture con la compagnia, comprendo fisicamente, mentre la voce si inceppa e le battute suonano false, quanto quelle parole siano state scritte per altri attori e non per noi.
Eppure soltanto attraverso quell'azione di lettura ad alta voce, cadrà la polvere e si rivelerà il disegno. Nel farlo, fingo che il testo sia appena stato scritto e che io sia una delle prime ad averlo tra le mani.
Tutta la mia esperienza professionale e personale si ribella, si rinnova e si modella per lasciare da parte pregiudizi e facili fughe, e animare un duello che trasformato poi in armonico dialogo metta al servizio dello spettacolo la mia personale lingua fatta di tecnica, sporcature della vita ed esperienza sul palco.
In questo magmatico accostamento iniziale sono certa che ognuno degli attori che ho scelto potrebbe incarnare qualsiasi personaggio. Ho spesso fantasticato sugli scambi di ruolo tra uomo e donna, sulla possibilità di imparare tutto il testo a memoria per poi sorteggiare i ruoli in un gioco fantasmagorico e difficile tra caso e possibilità. Non sempre l'attore o l'attrice che sembrano naturalmente portati verso un personaggio ne sono gli interpreti migliori, anzi. Anche in questo caso, diventa importante la duttilità della scrittura di sé che ogni interprete si impegna a fare, attraverso la ricerca della sua lingua e l'allenamento di quel bizzarro accordo di pregi e limiti che è il suo corpo.
Come le note scritte della musica del passato sono soltanto un'ombra di grandi esecuzioni e improvvisazioni che non sentiremo mai, così immagino anche le parole scritte, che induco a non proteggere con cura filologica, anzi. Non è raro che scopra da pessime letture gli spiragli più luminosi per arrivare allo spettacolo e che invece, nel tentativo di raggiungere rigore e perfezione, le battute si accartoccino miseramente. Allora incito gli attori perché le scuotano e le spolverino alla luce della sensibilità presente, così che il linguaggio goldoniano settecentesco possa risuonare brillante, provocatorio e immediato, perché le descrizioni shakespeariane dei paesaggi possano esistere al punto dal fare lo sgambetto a tutti i nostri pallidi tentativi di ricostruire castelli e brughiere con ferro e legno o perché sia restituita ad Ibsen l'asciuttezza sarcastica che ancora diverte e scandalizza, mentre, nel caso di Pinter, la stessa asciuttezza sia di nuovo passata al vaglio del sentimento.
Sono convinta che ogni vero autore si opponga con sguardo critico al tempo in cui vive e ricrei il teatro 'specchio del mondo' che ci aiuta a ritrovare la risata sui nostri limiti, il coraggio dell'utopia e l'azzardo contro la cristallizzazione dell'abitudine e della paura. Per questo dobbiamo accanto a lui lottare per restituire all'opera forza eversiva e voce innovativa, a dispetto del tempo che passa e della tentazione di fare rassicurante museo della letteratura teatrale e non. Al suo fianco lottiamo contro la morte.
Forse a causa di una deformazione professionale, immagino l'autore come il protagonista della sua opera e ne indago la biografia, le foto, ogni scritto. Le introduzioni al testo e le didascalie entrano a pieno titolo nel mio copione. Nell'allestimento di Hedda Gabler, ad esempio, la prima didascalia, che descrive la grande villa tra oggetti, ombra e luce, era diventata partitura corale per suono e voci, come se ogni attore, pur usando un identico testo, esprimesse immagini diverse di affascinanti e solide dimore borghesi, magari recuperando il ricordo di visite ai parenti, di parchi appartati, tetti e balconi, di visioni di viaggi impigliate nella memoria. Le spezzature, le interiezioni, le ripetizioni, erano un rito di evocazione che faceva di molte visioni una unica, invisibile fisicamente, ma resa possibile dal vuoto e dalla luce. Di certo Ibsen non immaginava questo uso della sua didascalia, ma l'affranta e innamorata precisione con cui descrive l'interno da lui immaginato, è una tentazione per impossessarsene ed evocarlo, seppur passando per un tradimento. Ogni spettatore trova così tempo, spazio ed abbandono per immaginare la sua personale villa di Hedda Gabler.
Ne Le smanie per la villeggiatura invece, il primo testo goldoniano con il quale ho avuto il piacere di duellare, era esemplare lo scontro incontro tra la mia esperienza di attrice autrice proveniente da 'scritture sceniche' e improvvisazione, e il 'riformatore' della commedia dell'arte, che da distanze secolari puntava il dito sui vizi degli attori, gli stessi con i quali in ogni tempo si combatte e che il pubblico in qualche modo fomenta e richiede: il narcisismo del divo che devasta i testi a suo favore, l'indulgere in pause, esiti ed atteggiamenti che inducano alla risata facile o all'applauso, la strumentalizzazione dei sentimenti e dei temi al fine di emergere personalmente e non come intelligente strumento e molti, troppi altri.
Sono talmente giuste, le note del Goldoni a questo riguardo, così equilibrate, sono talmente ben scritti i suoi testi, che considero del tutto fuori luogo il mio risentimento nostalgico a difesa dei poliedrici e anarchici comici dell'arte e la tristezza per la loro decadenza attraverso gli epigoni. Eppure questa difesa della 'categoria' – del resto inesistente – è stata una chiave importante per scegliere la via dell'allestimento, per trovare il coraggio di recitare in quattro attori otto personaggi e per osare esibire molti atti di 'illusionismo sciocco' – tipici di una riscoperta novecentesca dell'arte dell'attore, che si appella attraverso Leo o Carmelo appunto a Shakespeare e alla commedia all'improvviso – come, ad esempio, creare un cambio di casa semplicemente facendo volare leggeri panni bianchi che coprono le solitarie cinque sedie in scena per rivoltarli dall'identico lato opposto. Nel finale poi, arrivato come un'illuminazione nei primi giorni di prova, si esprimeva in sintesi tutta la nostra lettura: in un'accelerazione temporale vertiginosa, la stessa noia, la stessa disillusione del tempo di Goldoni diventavano le nostre, attraverso poche battute frantumate del Ritorno dalla villeggiatura, una canzone di Nick Cave, la spoliazione da parrucche e marsine. Indossavo un paio di occhiali da sole e mi accendevo una sigaretta.
Tutto stava nell'atto, e nella nostra convinzione, niente altro, e il pubblico ne riceveva un'impronta forte di freschezza, verità e comicità.
C'è una scena iniziale non scritta, nella quale risuonano le parole registrate dell'introduzione al testo di Goldoni, mentre le nostre quattro figure in maschera si avventurano a mettere in scena l'opera, appoggiandosi sull'arte dell'autore e tradendola. Io giro di spalle, con affetto, una poltrona illuminata, la sua, perché non veda. Come se le maschere, ritornate in vita nei misteriosi cicli della storia, si riprendessero il testo e buttassero via l'autore che le aveva aspramente condannate e forse, derubate? Eppure, nonostante i documenti, la storia e le affermazioni, quanto amore per gli attori e per la commedia dell'arte ho ritrovato in lui., quanta precisione nel registrare e migliorare sfumature dei dialoghi che possono essere nate solo in scena e che maestria nel restituire la possibilità di recitarli ora, facendo sì che 'tutti siano capaci', come risuonò la nota critica di un comico dell'arte a lui contemporaneo. In realtà Goldoni ha fotografato quei segreti dell'agire teatrale che gli attori sapevano comunicare soltanto attraverso il fare e che pochi tentarono di trascrivere. Li ha tramandati, nonostante e oltre i suoi intenti, a noi cialtroni di oggi, che ne facciamo trampolino per nuove letture.
Immaginare Goldoni come uno dei rari testimoni oculari del teatro dell'arte, mi ha dato una chiave anche per Locandiera. Le battute si sono immediatamente accese quando ho incoraggiato gli attori a deformarle con un dialetto, vero o inventato, immaginando che i comici che le recitarono la prima volta parlassero con un'onda aspra e dolce della loro terra nell'accento e poco avessero avuto a che fare con le Accademie. In un lampo ho ritrovato un lungo filo che dal passato mi ha guidato alle grandi maschere del varietà, agli attori della fulgida stagione della commedia all'italiana, alle sue sarcastiche vicende e amare maschere.
La scena iniziale, pur senza parole, risuonava ancora una volta come una didascalia, un invito a smascherare gli stereotipi di immagini settecentesche che ognuno di noi conserva e a ritrovare lo spessore della scrittura di Goldoni al di là del divertimento. Era anche una dichiarazione di impotente distanza: nel buio, su un pezzo di Bach suonato con strumenti africani, si muovevano le ombre mantellate di figure sconosciute che alludevano ad amori e villeggiature, diverbi, pranzi e duelli dei quali possiamo soltanto immaginare uno schizzo senza sentirne odori né sapori. Allo stesso tempo in quell'aria di naufragio in nero trovavo, al di là degli stereotipi, la vicinanza con il nostro tempo, come se entrambi, l'autore e noi, ci fossimo trovati in grandi galeoni scricchiolanti che navigavano verso l'ignoto, Titanic destinati a sparire mentre gli ospiti discutono e si appassionano di eterne futilità, passatempi contro la morte.
Il testo mi è apparso talmente ricco di sfumature, al di là del meccanismo perfetto della struttura e delle scene, che ho tentato di amplificarne l'eco attraverso le scritture senza parole dei cambi scena, dove era concesso a tutti i personaggi un tempo muto per rivelarsi e narrare diversi smarrimenti di fronte ad un mondo che cambia. Anche le uscite di scena erano spesso dilatate in passeggiate lentissime verso il fondale animato da ombre, per restituire quella solitudine dei personaggi che l'autore suggerisce ma non scrive mai. Così il personaggio di Fabrizio, assumendo su di sè battute di altri personaggi 'tagliati' e apparecchiando e sparecchiando, trasportando tavoli e panche nei cambi scena, ha assunto una rotondità particolare, un accento in più di gelosia e rassegnazione. Brilla di lingua napoletana il povero Marchese sovrappeso e sempre affamato, mentre gongola il Conte minuscolo e ricco. Il Cavaliere invece, vittima e carnefice, uomo nuovo senza fronzoli, non sa vivere in realtà un amore con una donna che sia di un ceto sociale tanto distante dal suo e si raggela in una vanità algida e solitaria.
Anche per Mirandolina, che ho cercato di liberare dalla centralità affidatale dalla tradizione ottocentesca per vederla più vera e forse più debole, i segni della scrittura scenica sono stati determinanti: vestito bianco e semplice, niente parrucca, segni della ribellione alle norme di una donna nuova altrettanto quanto le parole del finale che, pur restando le stesse, rivelano una malinconia tutta contemporanea attraverso il tono e l'inchino al pubblico, mentre gli uomini si dibattono come burattini in un palcoscenico dentro il palcoscenico. L'ideale di una libertà serena e felice è ben lontano da realizzarsi anche oggi, nonostante le recenti rivoluzioni etiche e di costume...
Rallentare alcune delle battute delle due comiche sbugiardate nei loro artifici e aspramente insultate dal Cavaliere e farvi assistere la locandiera, mi ha aiutato ad estrarre dal testo ancora una vicinanza tra destini femminili che, seppur diversi, conducono in ogni caso ad una sottomissione dell'intelligenza e della libertà al mondo maschile. Quando Ortensia rivela al Conte che 'siamo due commedianti', una musica di taramin accompagna il triplice inchino al pubblico delle comiche e di Mirandolina, che, sorridendo, denunciano i loro artifici privati e pubblici per piacere, per consolare, per campare e per gioire.
Mi si perdoni la lunga digressione che mescola temi, luci, musica, prossemica e parole. Ho voluto soltanto, evitando qualsiasi scivolosa tesi per la quale mi sentirei inadeguata, aprire squarci, domande, lampi sulle scritture sceniche, a volte sottovalutate nella loro complessità e nel loro rapporto con i testi. La luce, il suono e le registrazioni, elementi apparentemente immateriali, sono anch'essi parte del testo e amplificano la peculiare capacità di evocazione del teatro che suggerisce senza mostrare e senza gareggiare con la meraviglia degli effetti speciali o delle ricostruzioni realistiche ora affidata a cinema e televisione.
Anche per questo non faccio quasi mai uso di grandi scenografie, ma cerco di scegliere oggetti semplici che possano trasformarsi, come le due panche della locanda che da tavolo da pranzo, si fanno a vista stireria e patibolo per il cavaliere e infine palcoscenico per i litigi del conte e del marchese trasformati in burattini, mentre il galeone che ho immaginato alla deriva era evocato dal il suono amplificato di uno scricchiolio di legno e dall'ondeggiare degli attori. I segni di nastro bianco a terra (prima degli illustri maestri del cinema come Lars von Trier in Dogville) diventano villa, salotto o percorso obbligato del destino di Hedda Gabler e il bianco accecante della scena di Santa Giovanna dei Macelli, dove brillavano i lustrini in bianco e nero dei costumi di scena, sottolinea il vuoto della nostra povertà vestita a festa dal lavoro minorile o sottopagato.
Nel palco deserto di grandi scene, dove luce e suono guidano l'immaginazione, le parole diventano ancora più dense e chiare, private di fronzoli e distrazioni e le opere stesse mi suggeriscono una singolare prossemica degli oggetti e degli attori, delle forme del loro mondo. Le parole sussurrano indicazioni di regia.
Così il mondo di Hedda Gabler è una prigione di molti quadrati concentrici, dove salotti fluttuanti, mutando dislocazione, registrano i cambiamenti degli equilibri del potere interpersonale. Il mondo di Locandiera suggerisce in apparenza trasparenze di tulle, luccicori, danza e leggerezza, tessuti volteggianti e leggiadria, ma anche l'odore di marcio e la puzza delle sue città, moltiplicazione di fondali, teatrini nel teatro, corse immediatamente rallentate. C'è sempre un fondo magmatico nel quale si muovono figure spianti, tristi, rimuginanti. Il primo piano è spietato invece, tra l'interrogatorio, la gogna e il trionfo. La sua forma è la spirale che può scendere e salire da un momento all'altro, quasi senza ragione. Per la parola di Shakespeare ho cercato uno spazio ancora più duttile, che potesse variare moltissimo anche attraverso il piccolo spostamento di elementi semplici come panche, sedie, un trono di metallo che sembra una macchina di tortura ed è invece soltanto uno strumento di lavoro delle vecchie cantine scovato da Marco Sgrosso. La poesia è talmente densa che bastano due lenzuola lasciate volare sulle panche per creare il banchetto e una corsa circolare intorno al trono rovesciato per suggerire l'alternanza dei poteri e delle fortune. La forma è circolare e nuda, in consapevole e continuo mutamento, mondo di coscienza alta che si sposa alla semplicità per convincere e raccontare.
Qui, mi fermo, rimandando ad altri luoghi un ragionamento sulla prossemica suggerita dalle parole del teatro e il vano desiderio di poter tradurre in segni, come a volte si è tentato con la musica contemporanea, la complessità della scrittura scenica.
Per il passato abbiamo come aiuto le note di spettatori eminenti, ora anche le riprese e le registrazioni, cosa preziosa se non pretende di sostituire, per motivi economici e in funzione di un'ampia diffusione, il teatro dal vivo. Accanto ad esse spero permanga una scrittura su carta che trasudi dello sforzo di raccontare il teatro. Forse anche questo, attraverso la capillarità delle didascalie, la descrizione di abiti e di luci, ha tentato Pinter: non soltanto di guidare gli allestimenti futuri, ma anche di dare una testimonianza di ciò che erano. Non a caso anche lui praticava molto teatri e scena, aveva adorati attori di riferimento e difendeva allo strenuo la sua opera e la compagnia di fronte al pubblico. Nonostante ne condivida il sentire, ho immaginato per L'amante un'operazione deflagrante: il primo giorno di prove abbiamo registrato una lettura completa, didascalie comprese. Abbiamo fedelmente rispettato il testo, ma moltiplicandolo, rifrangendolo, spezzandolo, sottolineando la poesia dell'asciutta descrizione della scena, confondendo ricordo e realtà, misurando quanto siano stati veloci i cambiamenti che ci hanno portato lontano sia da quel sogno di felicità monofamiliare che dalla sua critica.
Ancora una volta si affacciano gli irrispettosi attori della commedia dell'arte, demoni che spingono a distruggere quanto è ordinato, perché un nuovo linguaggio si ricrei ad ogni epoca, ogni giorno, così come ci condanna l'aleatoria natura della nostra arte. Mondo alla rovescia.
Il testo del grande autore però non perde mai la sua brillantezza e, nonostante il tempo e le sfide, torna a splendere ogni volta che lo si cerca davvero, diventa maestro.
Ne ho fatto più volte esperienza, ricavandone stupore e nuove informazioni che sono state la guida per i miei tentativi di scrittura al contrario: partire dall'improvvisazione per arrivare al testo.
Improvvisazione, è ovvio, non significa agire secondo un impulso momentaneo, ma intessere una struttura, spesso con musica dal vivo nel mio caso, appuntare testi, immaginare una storia o più di una e provarla in esecuzione, saggiando in prova i materiali. È una modalità di composizione che per me è stata l'unica strada per sottrarmi all'incapacità di mettere fine alla stesura di un testo. In questo caso mi riferisco sia a lavori come Le relazioni pericolose o La pazzia di Isabella, redatti con Marco Sgrosso, dove a partire da romanzi e documenti si arriva a una drammaturgia inedita che a testi del tutto originali composti da me. Sia nel caso della scrittura di Non sentire il male, dedicato a Eleonora Duse – la cui natura di regista e drammaturga emerge con forza dalla visione dei copioni da lei sottolineati, tagliati, modificati e dalle testimonianze dei compagni di lavoro –, che di Juana de la Cruz (scrittrice di teatro e poesia, abile autrice di quella famosa Lettera in sua difesa che appare come un monologo pensato per la scena dei potenti della Chiesa e dei letterati) che de La pazzia di Isabella (scritto con Marco Sgrosso ma nel quale era tutta originale e creata da me l'evocazione di Isabella Andreini, un'altra artista che, pur dedicandosi alla scrittura, preferì uniformarsi alla letteratura piuttosto che annotare con precisione quanto facesse o dicesse sulla scena) , ho prima fatto una ricerca molto estesa di materiali, li ho studiati e selezionati, li ho confrontati con le mie personali visioni che ho dimensionato accordandole ai dati storici e i documenti. Soltanto l'improvvisazione però ha saputo aiutarmi nelle scelte definitive. Ho percorso la stessa via quando ho usato come materiale drammaturgico biografie di sconosciuti ai più, storie inventate e, a tratti, la mia stessa biografia.
È stata di aiuto la sbobinatura delle registrazioni di prove o spettacoli dal vivo, cosa possibile oggi e non un tempo e, forse, inibitoria del potere selettivo e cognitivo della memoria. Da un lato scrivo quello che ricordo, dall'altro sbobino, cercando di domare la scivolosità delle parole. Si affacciano mentre scrivo versioni migliori, nuovi personaggi, ammicchi, rime. La rima diventa una guida e un'ancora nell'improvvisazione, ordina e riduce le difficoltà di scelta.
Da questo guazzabuglio torno alla scena, macerandomi nell'attesa di questa esperienza straordinaria che dona tanto ma tanto chiede.
Mi permetto, precipitata dalle vertiginose altezze dei grandi autori ai miei balbettanti esperimenti, di fare riferimento a questa pratica perché mi ha aiutato moltissimo a comprendere la bellezza delle scritture altrui e allo stesso tempo a farle ritornare lingua viva, vicina alla sensibilità di un vasto pubblico che desidera moltissimo incontrare i grandi testi, ma spesso, a causa di interpretazioni sbagliate o pregiudizi, ne ha perso la chiave.
Ho spesso parlato di questo, a pubblici che confrontavano attoniti la freschezza che avevano trovato nello spettacolo con le sensazioni polverose della loro memoria, dove abitava la falsa informazione che il testo fosse un rigido abito indossato da burattini ammaestrati ad esprimere le idee dell'autore, genio solitario chiuso nella sua stanza. Ne ho derivato sparse riflessioni sulla separazione tra cultura esperienziale e sapienziale e sugli analfabetismi derivanti. Proprio per questo sarebbe importante moltiplicare le occasioni di confronto tra chi pratica la scena e chi la scrive, affinché si possa 'litigare' al presente, ritrovare l'arte empirica delle incrociate scritture, così che la materia magmatica del talento dell'attore passi al setaccio dello sguardo dello scrittore e, viceversa, la scrittura si misuri con lo spietato bisogno di autenticità della scena.
Pur nell'apparente attuale tripudio delle comunicazioni, la creazione teatrale si compone spesso attraverso la giustapposizione di cammini solitari, sottoposti a ritmi di produzione che niente hanno a che fare con la gioiosa ricerca collettiva che comprende il tempo dell'errare e dell'errore, rivela nuovi stili e visioni, sorveglia il rischio di esiti troppo autoreferenziali o gelidamente intellettuali, scaldandosi invece dei reciproci saperi. Tutto questo senza perdere di vista la cultura popolare e il cercare, spesso disorientato e confuso, del pubblico.
Questo appello che pare nostalgico nasconde invece il desiderio di ritrovare la rotondità di quella meravigliosa macchina dei segni e dei sogni che è il teatro e che ha bisogno di tempo e di un un concerto armonico delle diverse competenze che simuli una società ideale.
Sarebbe bello che i grandi teatri come le piccole sale diventassero laboratori di scritture, da quella testuale a quella musicale, da quella per immagini alla coreografia, con continui esperimenti per tornare a riunire ciò che abbiamo troppo violentemente diviso: potrebbe ricominciare a respirare un mondo. Ma che sciocca. Sto parlando di ricerca, esperienza che manca a tutti, ora, in Italia. Ricerca per un teatro popolare, un teatro popolare di ricerca, come sognò Leo de Berardinis.