di Bertolt Brecht
progetto, elaborazione drammaturgica Elena Bucci, Marco Sgrosso
regia Elena Bucci con la collaborazione di Marco Sgrosso
con Elena Bucci, Marco Sgrosso, Maurizio Cardillo, Andrea de Luca, Nicoletta Fabbri, Federico Manfredi, Francesca Pica, Valerio Pietrovita, Marta Pizzigallo
traduzione di Roberto Menin - disegno luci Loredana Oddone - musiche originali eseguite dal vivo Christian Ravaglioli - cura e drammaturgia del suono Raffaele Bassetti - macchinismo e direzione di scena Viviana Rella - supervisione ai costumi Ursula Patzak in collaborazione con Elena Bucci - scene e maschere Stefano Perocco di Meduna - assistenti alla regia Beatrice Moncada, Barbara Roganti - sarta Manuela Monti
CTB Centro Teatrale Bresciano - ERT Emilia Romagna Teatro con la collaborazione artistica de Le belle bandiere
NB: il caso, che non è mai un caso, ci ha raccolto intorno a questo progetto per il primo giorno di prove il 18 settembre 2018, a dieci anni dalla scomparsa del nostro maestro Leo de Berardinis. A lui dedichiamo lo spettacolo, per quanto ci manca, e grati, nel tempo, per tutto quello che ci ha insegnato (EB e MS)
grazie a chi ci ha sostenuto in questa avventura e al Teatro Comunale di Russi e grazie anche a Davide Reviati per l’immagine e a Giovanna Randi per alcuni oggetti ormai introvabili
debutto: 23 ottobre 2018, Teatro Sociale, Brescia
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«Noi volevamo una favola dorata
È venuta amara, alla fine si è guastata.
Pubblico amato, pensa allora per te un finale!
Di un'anima buona, abbiamo un bisogno reale!» (Bertolt Brecht)
Siamo nel vortice dei dubbi e delle provocazioni innescate da questa parabola antica e attuale, divertente e amara, irta di domande affascinanti e insidiose intorno al sentimento del bene e del male, della bontà e della cattiveria, della sopraffazione e della solidarietà, ma anche intorno al ruolo dell’arte e del teatro in un mondo che misura i suoi valori sulle leggi dell’economia.
Bertolt Brecht, con lo sguardo acuito dalle persecuzioni, profetico e lucido, trasforma in sorprendente drammaturgia frammenti di storia, questioni della politica, interrogativi dell’etica. Rompe le convenzioni, chiama in causa il pubblico, sta in bilico senza paura tra i generi, passando dal cabaret al dialogo filosofico, dalle invettive alle scene d’amore.
Composta negli anni del suo esilio da una Germania feroce, “L’anima buona del Sezuan” ci colpisce per l’equilibrio tra lo sguardo freddo e analitico e la vena poetica.
Ci troviamo di fronte alla memoria di importanti allestimenti e alla storia delle alterne fortune di questo autore che risveglia sempre sentimenti contrastanti: è difficile, divertente, asservito, libero, anarchico, distrugge il teatro o lo ritrova?
In epoche difficili per le arti, abbiamo scelto di affrontare questa impresa con gli strumenti di un’antica tradizione italiana: le maschere e i gesti di una commedia dell’arte tradotta per questo tempo. Pratichiamo un continuo allenamento a mescolare i linguaggi, i punti di vista, i dialoghi e gli appelli al pubblico, il grottesco e il tragico, le provocazioni intorno al presente e le evocazioni di antica poesia, sempre confidando nella potenza catartica del teatro che trasforma le contraddizioni in abbraccio.
Come una compagnia girovaga con musico approdata in città con il suo carico di palchetti di legno, maschere e costumi, immaginiamo il teatro come una piazza dove si dispiega questo denso racconto cantato, parlato, danzato e dove si possano affrontare le domande che bruciano.
Immaginiamo il nostro Sezuan anche attraverso le pagine che l’autore dedica alla Cina e al suo teatro. Ci immergiamo in questa ambientazione bizzarra e provocatoria ricorrendo sia alla fascinazione che agli stereotipi con i quali guardiamo ad una cultura orientale che ci sfugge e ci somiglia, nella sua capacità di mescolare modelli antichi e slancio verso il nuovo, saggezza e corsa alla conquista dei mercati. E ci ritroviamo in una terra di contrasti, di bianco e nero e di accesi cromatismi, in un cantiere di palafitte solitario e sovraffollato, nel quale gli attori sono guerrieri di pace pronti a rapide metamorfosi. Le maschere si sovrappongono ai volti e, una volta alzate, rivelano nuove bellezze e profondità. I personaggi si incarnano in maschere bianche che ne scolpiscono i tratti dell’anima, i corpi si caricano di gestualità espressionistiche, mentre i luoghi dell’azione trasformano lo spazio con il mutare delle luci e lo slittamento delle prospettive.
La ricerca intorno al magico abisso che si crea tra persona e maschera, tra la vita e la scena, ci ha permesso di affrontare temi dolorosi come l’accoglienza o meno di chi non ha nulla, la fame, la costruzione di imperi basati sulla miseria di molti, la sopraffazione in nome della difesa dei figli, l’esistenza della divinità e ancora e ancora.
Abbiamo attraversato le diverse letture del molto citato ‘straniamento brechtiano’, cercando la nostra via di vicinanza, rottura, distanza per risvegliare sensi ed intelletto.
Incontriamo le esilaranti figure di tre dei in missione per conto di misteriosi superiori alla ricerca di anime buone. Se le troveranno, il mondo ‘può restare com’è’.
Al vagare degli umani si aggiunge dunque quello incerto degli dei, che cercando di premiare la bontà disordinano i destini fino al sorprendente epilogo finale.
Sulla scia del nostro maestro del dubbio, indaghiamo la scissione che avviene nella prostituta Shen-Tè prescelta dagli dei come esempio di anima buona, tra la sua natura amorevole e quella ragionevole, tra il generoso angelo delle periferie Shen-Tè e il suo alter ego creato per difendersi dall’assalto dei poveri, l’avido imprenditore Shui-Ta.
Shen-Tè diventa la lente d’ingrandimento attraverso cui osserviamo il sentimento alterno di apertura e paura dei privilegiati del mondo nei confronti della nuova povertà, con le sue domande ancora senza risposta.
Il gioco di sdoppiamenti e metamorfosi innestato da Shen-Tè/Shui-Tà si propaga agli altri personaggi, attraverso il gioco del cambio di maschere: dal devoto acquaiolo Wang all’aviatore senza aereo Yang Sun, che incarna le lusinghe della passione amorosa, ai ricchi del quartiere, prepotenti e senza scrupoli, fino al multiforme e grottesco coro di un popolo che giustifica con la miseria egoismo e delinquenza.
E anche se tutto il racconto porta senza scampo alla potenza amara dell’immagine delle braccia di Shen-Tè tese verso il cielo nell’atto di una preghiera vana, non possiamo non accogliere l’appello finale dell’autore: tentare sempre, di nuovo, ogni giorno, con tutti i mezzi, di migliorare il mondo, pur sapendo di fallire e di questi fallimenti, terribili e struggenti, continuare a raccontare la storia.