LEO, LE MASCHERE E LA PROMESSA
di Elena Bucci
La portentosa forza della lezione di Leo - derivata da un’intensa compenetrazione tra teoria, pratica, e riflessione politica e civile - arriva intatta e inquieta fino al presente, fino a questo momento.
Leo, come la Duse, dice: ‘le convenzioni, le celebrazioni, il successo, le tradizioni non significano niente’ e ‘l’arte non si insegna’.
Suonano strane queste parole? Ma no.
Entrambi hanno profondamente ammirato e studiato la tradizione e cercato di trasmettere tutto quanto sapevano ai loro attori, incoraggiandone qualità e inclinazioni.
Entrambi quindi, hanno fatto dell’arte del paradosso uno strumento per non adagiarsi mai, per continuare a cercare e per affinare la pratica della trasformazione, ascoltando i tempi e sé stessi. Una perfetta arte di formazione.
Tale arte del paradosso, affascinante seppur disorientante - e forse proprio per questo preziosa - è stata supportata in massimo grado dall’uso della maschera.
Proprio la proposta di lavorare con la maschera fu, per noi del Teatro di Leo, una formidabile occasione di cambiamento, rivelazione e svelamento.
Già da diversi anni lavoravamo insieme, guidati da Leo in un processo di consapevolezza attoriale e politica verso la libertà creativa, passando da Shakespeare alle scritture originali, dai laboratori con altri attori alla costruzione dello Spazio della Memoria. Fatalmente ognuno di noi aveva acquisito - volente o nolente - un‘identità artistica e una ‘nota’ creativa piuttosto riconoscibili, dentro e fuori dalla compagnia.
In Leo scattarono evidenti campanelli d’allarme. Forse lui stesso sentiva che ci stavamo abituando a suonare insieme senza interrogarci su altre vie e possibilità? Forse sentiva il rischio della ripetizione vuota di un ensamble molto affiatato e partecipe? Si interrogava più profondamente sul ruolo del teatro nel mondo e per il mondo? Vedeva delinearsi temibili meccanismi di potere, per quanto generati da stima e affetto? A me piace pensare che fosse così, appellandomi alla mia memoria e agli scritti di Leo.
Ci chiese quindi, per il ‘Ritorno di Scaramouche’, di attingere a risorse nuove e mai usate, di cercarle e affinarle. Allo stesso tempo lo chiese a sè stesso. Ci apprestavamo a ribaltare i confortanti assetti delle nostre relazioni e a trovare un nuovo luogo per la compagnia, nel mondo del teatro e fuori, come già stava avvenendo con la fuoriuscita dal teatro Testoni e la nascita del Teatro di Leo.
Tornare a pensare alla Commedia dell’Arte, significava anche approfondire e rivedere in tutti i sensi il percorso già intrapreso: quello era un tempo nel quale era necessario che ogni attore diventasse autore, riappropriandosi di ogni mezzo del mestiere, dal testo alla creazione del personaggio, dall’allenamento fisico alla pratica dell’improvvisazione.
Era un tempo nel quale Leo sosteneva che un attore vero dovrebbe essere in grado di recitare Shakespeare alla luce del semaforo, senza protezione e con grande volontà di mescolarsi alla vita.
Cosa di più vicino a questi pensieri della Commedia dell’Arte, con il suo mistero e la sua esplosiva miscela di sublime cialtroneria e poesia concreta?
E ci mettemmo a lavorare.
Stefano Perocco di Meduna ci portò le belle e duttili maschere create dalle sue mani sempre curiose e intelligenti, Eugenio Allegri ci trasportò per cinque giorni nel mondo della Commedia dell’Arte tradotto per la contemporanità dal Tag.
A questo punto Leo, sempre così presente e artefice, ci lasciò soli, con il compito di scegliere un personaggio e improvvisarne parole e gesti. Ricordo bene come il piccolo Spazio della Memoria fosse idealmente suddiviso in ‘angoli’ per ciascuno di noi. Angoli di crisi, scoperte, scongiuri.
A conclusione di ogni giornata di prove, mostravamo i risultati della nostra ricerca, dapprima zoppicanti e incerti e poi, sotto il suo sguardo rigoroso, sempre più sicuri.
Da maestro vero, Leo cercava un equilibrio nella guida che rendesse sempre più forti e autonomi gli attori, osservando con estrema attenzione e formulando indicazioni utili per il lavoro del giorno dopo.
Per una persona timida e amante del dubbio come me, la maschera fu un’amica nemica.
Da un lato mi sussurrava protezione, dall’altro mi costringeva ad una pratica di estremo rigore dettata dalla mia stessa sensibilità. Non potevo ribellarmi a niente, nè lamentarmi con nessuno: come da uno specchio appannato che piano piano torna limpido, vedevo dipanarsi le indicazioni del cammino da fare e alla fine, attraverso la maschera e i movimenti che ne derivavano, eccomi rivelata come mai prima, e in diverse età, dai tre ai centoventi anni, e proprio da quello specchio. Altro che protezione.
Quel modo di usare la maschera mi costringeva a una spietata rivelazione dei miei pregi e soprattutto limiti. Dovevo imparare di nuovo ad usare corpo, voce e metodo di creazione.
Il rapporto con la maschera era di assoluta libertà: prendevamo dalla tradizione quello che poteva esserci utile, ma senza alcun limite nell’invenzione.
Antonio Alveario indossò, pur senza l’oggetto, la maschera di tutti i vizi del privilegiato con pretese d’ arte, Pupetto Castellaneta diventò una magnifica donna, Marco Manchisi cominciò il suo percorso nella commedia con Pulci, parente distratto di Pulcinella, Francesca Mazza trasformò la Strega in creatrice della vita, Gino Paccagnella si ritrovò come strumento folle un paio di occhialoni spessi, Marco Sgrosso inventò un feroce Arlecchino napoletano di nome Vongola.
Maurizio Viani, con un uso della luce che coniugava sapienza, amore e anarchia trasformò le intenzioni in visioni. Così le braccia sembravano ali, i corpi disegni, i salti acrobazie. Tutta questa magìa viveva del movimento e nell’azione: per questo non se ne trova traccia nei documenti.
Leo rivelò, attraverso Pantalone, tutte le sue paure e le sue angosce, trasformandole in un formidabile punto di forza e di indagine, per la vita e per il teatro.
Io scelsi d’istinto due maschere mai usate per la Commedia dell’arte, quasi fosse un’ inconsapevole polemica nei confronti del passato, quando le donne non avevano maschere, anzi, servivano proprio come esche per il pubblico, meglio spogliate che ‘velate’. La scelta del ‘personaggio’ - mai Leo avrebbe detto questa parola! - e delle maschere fu unica. Volevo interpretare la Morte, mia ossessione da tempo, studiata, temuta, blandita, e le sue maschere per me erano la Bautta - simbolo del mondo capovolto carnevalesco, annullamento d’identità esemplare della licenza e ambivalenza sessuale e del destino che - a’ Livella! - ci fa finalmente tutti uguali e la maschera del Dottore della Peste, che evoca insieme l’incubo dell’epidemia e la possibilità di irriderne la paura vivendone sia il grottesco, sia la vitale e disperata reazione, tutta fatta di piacere e ‘carpe diem’.
Potevo anche pormi la questione del potere, rivelando nascosti pensieri della mia Morte, comico scheletrino che, temuta da tutti e da tutti blandita, piange la sua estrema solitudine.
Accolsi la richiesta di Leo, buttandomi completamente in questa ricerca, inventando un allenamento fisico adeguato, spingendomi oltre la mia paura, verso tutto ciò che più temevo, dall’improvvisazione alla comicità spietata.
La relazione con gli altri si rivelò una continua scoperta: i compagni abituali diventavano altri, con la maschera. Si annullavano convenzioni, fasulli rispetti, protezioni. Risultava evidente come la generosità sulla scena venisse cento e mille volte ripagata da un patrimonio di invenzioni che, partite dai singoli, si moltiplicavano in aria perchè tornassero di tutti, di chi per primo le acchiappava.
Su un piccolo palchetto da Commedia, riuscivamo a danzare indiavolati tutti quanti, prendendo energia uno dall’altro e senza urtarci mai, corpo unico e selvaggio.
Forse non è un caso che tutto il lavoro precipitasse verso un duello tra Morte e Vita prima ridicolo, a suon di canzonette, e poi tragico, danzando Bach. Eravamo guerrieri, in fondo, e usavamo le nostre armi leggere perché era necessario combattere, in quel tempo. E anche ora.
Leo non ha mai smesso di interrogarsi sul suo agire.
Ogni volta rispolverava i suoi strumenti e i suoi sberleffi, per tentare di rivelare i pensieri profondi che stavano nell’aria e che non trovavano ancora parole per essere formulati, per capovolgere la visione degli assetti del potere, per creare in breve tempo legami che resistono ad ogni separazione, per conciliare sapere intellettuale ed esperienziale e infine, per incitare a studiare fino al punto da poter osare abbandonare quello che si crede di sapere e scoprire quello che non si voleva vedere.
Questa presente e viva lezione di Leo e la coscienza di avere tanto ricevuto, ci legano a una promessa fatta tempo fa, senza parole e senza obblighi: non dimenticare la responsabilità gioiosa che il nostro fare comporta, in ogni momento, in ogni piccolo atto, in ogni sottilissima scia.
(riscrittura per il ‘libro’ del contributo all'incontro "La Commedia dell'Arte di Leo de Berardinis", che si è svolto il 14 luglio 2008 nel quadro del Festival-Laboratorio "Arlecchino Domani" della Scuola d'Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano - all'incontro hanno preso parte: Gerardo Guccini, Marco Manchisi, Stefano Perocco e Marco Sgrosso)