LEO-LEAR E LA TRASMISSIONE DEL REGNO

di Marco Sgrosso

Ho iniziato a lavorare con Leo nel 1985 e sono rimasto con lui fino al 2000.
Il mio primo spettacolo con lui fu “King Lear – studi e variazioni” ed è uno di quelli cui sono più legato. Leo aveva da poco iniziato la sua collaborazione con la Cooperativa Nuova Scena e usciva da un periodo difficile. Reduce da un periodo di alcolismo e di inattività teatrale, cercava una nuova strada sia come uomo che come artista. Aveva già realizzato un bellissimo “Amleto” in versione integrale, che aveva messo a dura prova gli spettatori: pochi resistevano e molti di quelli rimasti crollavano nel sonno, aiutati dalla flebile elegante lucetta viola che si accendeva in sala durante i due intervalli. Era uno spettacolo di grande fascino, con le luci splendide di Maurizio Viani, ed era il primo passo nella costituzione della sua nuova compagnia. Leo pensava ad una trilogia scespiriana che prevedeva anche “King Lear” e “La tempesta”. Per la produzione del “Lear” Leo tenne alcuni attori dell’ “Amleto” e si dedicò ai provini per trovare le attrici che avrebbero interpretato Gonerill e Regan. Il ruolo di Cordelia era stato assegnato a Francesca Mazza, già Ofelia nell’Amleto e da poco sua compagna di vita.
A quel tempo, non sapevo molto di lui, non conoscevo la sua storia artistica, l’incredibile avventura delle cantine romane né il periodo di Marigliano con Perla.
Accompagnavo Elena alle audizioni e rimasi colpito dalla passione che lui metteva nella scelta. Vide oltre cinquanta attrici, poi ne scelse gruppi via via più ristretti, fino a pochissime che rivedeva singolarmente e in diversi accoppiamenti. Nascosto nella galleria del teatro, consideravo le chances di Elena. L’ultimo giorno Leo la chiamò dentro più volte: l’aveva scelta per Gonerill e cercava la Regan che meglio legasse con lei, valutando la coppia delle sorelle da un punto di vista fisico e sonoro. Alla fine scelse Fernanda Hrelia, bionda, formosa e dalla voce acuta, opponendola ad Elena, mora, longilinea e dal timbro scuro di contralto.
Chiesi a Leo un provino per ‘conoscenza’, e lui me lo concesse con grande cortesia, chiedendomi scherzosamente quale delle due sorelle volevo interpretare! Fu un provino ‘vero’, che seguì con estrema attenzione, mentre sulla scena del suo assolo su Dante io mi scindevo nel doppio ruolo di Oreste e Clitemnestra nella scena del matricidio. Sebbene il cast maschile fosse già al completo, Leo mi disse che sicuramente in futuro avremmo lavorato insieme. Poi… l’attore che avrebbe dovuto interpretare il ruolo di Edmund rinunciò e Leo mi chiamò! Mi ritengo ‘baciato dalla fortuna’, quando penso di avere iniziato la mia carriera teatrale con un ruolo meraviglioso e sotto la guida di uno degli artisti più grandi del teatro del Novecento.
Le prove del “King Lear” furono magnifiche. A quel tempo Leo era molto cupo, rideva raramente, l’atmosfera che lo circondava era sacrale, quasi ieratica. Talvolta si provava imbarazzo nel mostrarsi troppo allegri: ricordo l’episodio di un improvviso riso cristallino di Elena, Fernanda e Francesca, che a noi suonò delizioso mentre a lui fu sgradito e sembrò ferirlo, disturbarlo profondamente nella sua concentrazione creativa.
Nel lavoro era molto appassionato e il suo entusiasmo era contagioso. Ci insegnava che la parola è musica, ci contava pause e respiri, cesure e accelerazioni, con una cura della tessitura sonora che non avevo mai conosciuto prima. Il lavoro ‘a tavolino’ fu lungo e meticoloso. Leo concepiva il testo dell’amato Shakespeare come una sorta di concerto, con un’attenzione estrema all’equilibrio di toni, timbri e ritmo, suggerendo intonazioni e pause ma al tempo stesso abituandoci alla consapevolezza che ci aiutasse a sviluppare un’autonomia di scelta e di gusto. Il lavoro era così entusiasmante che il riposo settimanale era per me un giorno indesiderato strappato alla gioia delle prove. Guidati da lui, le parole della tragedia diventavano musica nelle nostre voci.
Sul contrasto tra la sua voce profondissima e i tre diversi timbri delle voci femminili creò la scena della spartizione del regno quando Lear chiede alle figlie in quale misura lo amino. Le tre sorelle rispondevano ruotando su se stesse come pianeti sperduti nell’universo, con tre maschere macrocefale che inglobavano le teste ed erano cassa armonica per le voci.
Il monologo di Edmund con l’invocazione alla natura-dea era impostato in un crescendo di ritmi e respiri, alternando accelerazioni e distensioni, mentre il corpo seguiva il flusso emotivo ed io mi sollevavo da terra come in una trance progressiva.
Nella scena della tempesta che coglie Lear nella brughiera dopo essere stato scacciato dalle figlie, recitavamo i versi in inglese tra singulti e sospiri, suonando le corde stridenti di strumenti metallici simili ad arpe primitive. La vicenda di Lear accadeva in uno spazio ‘sfondato’: la platea del teatro, liberata delle poltrone, era stata dipinta di bianco con gli spettatori su una gradinata in fondo alla sala.
L’esilio del Re, accompagnato dal Fool che quasi cantava le battute ruotando un bastone fiorito di rose bianche, si consumava in questo spazio candido e sconfinato, segnato dalle luci meravigliose di Maurizio e abitato da pochi elementi scenografici. La platea era attraversata da un tronco rovesciato, dove Cordelia, incorniciata come una Madonna, recitava la battuta del Gentiluomo che racconta il suo dolore nel leggere le lettere del padre scacciato. Sul lato opposto, in un cubo nero di plexiglas, pronunciavo la confessione di Edmund, congelato in ginocchio con le mani contro una lastra immaginaria. Nello zoccolo del proscenio uno specchio rifletteva la platea, suggerendo uno spazio profondissimo. Tra palco e platea Gonerill percorreva lenta una passerella obliqua insultando il padre in un crescendo di intensità, mentre Lear replicava con voce spezzata in cui risuonavano il pianto e l’ira. Sul fondo del palco, uno schermo e un velatino enfatizzavano la profondità e diventavano nebbia o muri compatti a seconda dell’illuminazione. Dietro una di queste ‘pareti trasparenti’, l’Edgar di Gino nei panni del povero Tom recitava muovendosi a busto nudo sul ritmo strappato di un brano jazz. Più di ogni altra mi è rimasta impressa la meravigliosa scena della cacciata di Lear: dopo gli improperi delle figlie e il silenzio del debole Gloster, un cupo terremoto accompagnava un bellissimo cambio di luce, schermo e velatino diventavano muri bianchi opachi che ‘mangiavano’ le loro figure mentre pian piano si illuminavano palcoscenico e platea, dove Lear vagava nella sua dolorosa solitudine.
Il meticoloso lavoro sonoro non escludeva un’attenzione maniacale alla cura di gesti e movimenti molto lenti che hanno a lungo alimentato l’equivoco di uno scarso lavoro da parte di Leo sul corpo dell’attore: invece così imparavamo un’economia preziosa, scongiurando il pericolo di quella ‘quotidianità’ che lui considerava cifra teatrale banale. Leo ci ripeteva che un passo in palcoscenico equivale ad una frazione di movimento nell’universo, ci insegnava ad ‘essere’ in scena e non a ‘fare’, e ogni gesto doveva avere una necessità interiore e poetica. Questa visione si sarebbe poi evoluta fino all’esplosione di vitalità che avrebbe caratterizzato il lavoro con le maschere nel “Ritorno di Scaramouche”, che aprì una nuova fase del suo lavoro con la compagnia e che sarebbe proseguita nell’allestimento del secondo bellissimo Lear, undici anni dopo. Ma sia nell’economia ‘costretta’ dei primi anni che nella libertà scatenata di dopo, nel corpo nulla doveva essere casuale, il movimento seguiva lo stesso rigore del lavoro vocale.

Nel 1996, partecipai al “King Lear n.1”, secondo allestimento della tragedia di Shakespeare che avrebbe dovuto essere la prima di una serie di nuove “variazioni”. Dopo “Scaramouche”, la sua creatività conosceva un periodo di rinnovato splendore. Questo Lear fu molto diverso dal precedente, perché Leo stesso era cambiato. Era un altro uomo. La separazione da Francesca e la disgregazione in fieri della compagnia – in parte dovuta all’acquisizione di alcuni attori di quell’autonomia cui ci aveva esortati ma che in fondo lo feriva – avevano cambiato la situazione. Leo aveva ripreso a bere. In scena, sul tavolino di uno squallido bar di periferia sotto l’insegna intermittente di un neon blu che lampeggiava la scritta Bar Mexico, apparve la birra, compagna non solo dell’uomo ma anche del delirio di un Lear quasi ‘scoppiato’ quando incontra Edgar-povero Tom, in un intreccio dirompente tra le parole di Shakespeare e testi nati dall’improvvisazione.
Lo spettacolo era frammentario e provocatorio ma ricco di intuizioni e soluzioni geniali. L’universo di Lear era ‘frantumato’ perché Leo stesso era frantumato, e il fascino del lavoro stava proprio in questa meravigliosa commistione di alto e basso, di tragico e grottesco, che si rifletteva nell’ardito accostamento delle musiche, dalle struggenti melodie yiddish di Moni Ovadia al respiro immenso del Requiem di Mozart, fino alla pochezza di una canzonetta come ‘Viva l’amore’ dei Giganti.
In comune con il primo allestimento c’era la nuova, trascinante passione di Leo nelle prove, indimenticabili per ricchezza di stimoli e momenti emozionanti.
Leo credeva allora alla fondazione di una ‘nuova’ compagnia, dove gli elementi ‘storici’ (Elena, Gino ed io) si mescolassero a compagni di avventure più recenti (Donato Castellaneta e Antonio Alveario, presenti ne “I giganti della montagna” e in “Scaramouche”) e alle nuove acquisizioni, Cinzia Sartorello, Valentina Capone e Fabrizia Sacchi, nuova musa ispiratrice.
Nel “King Lear n.1” confluivano passato, presente e futuro. La cura della parola scespiriana si inquinava della più recente passione per la genuinità aspra dei dialetti e l’esperienza travolgente di “Scaramouche” lasciava in eredità le maschere e il palchetto della commedia dell’arte, qui raddoppiato in un più piccolo gemello posteriore, aprendo la via a salti e passaggi dall’uno all’altro e da questi al palcoscenico. Le maschere non erano più soltanto i volti dei personaggi ma potevano essere calzate e strappate dal volto a seconda della necessità. Sperimentammo distorsioni della voce attraverso l’uso del microfono (scomparso poi dalla versione finale), che ci appoggiavamo alla gola, alle guance, alla fronte, nella ricerca di diverse sonorità.
Rispetto al primo Lear, le prove ‘a tavolino’ venivano frequentemente interrotte per sperimentare in scena stimoli che nascevano dall’improvvisazione. Sempre da “Scaramouche” nasceva l’invito ad un movimento che fosse danza pur scongiurando il rischio di esserlo realmente, la voce straziata di Ovadia accompagnava apparizioni e scontri dei personaggi, fino al lungo brano su cui si consumava la battaglia di tutti contro tutti in un’esplosione di corpi che colpivano e cadevano, sempre morendo e sempre risorgendo. Allo spazio sfondato del Lear del 1985, si sostituiva un universo ristretto, con gli attori costretti nell’area ridotta dei palchetti. L’impostazione dei personaggi era diversissima dal primo Lear. Il Kent di Cinzia tentava di placare l’ira del Re zoppicando su un solo tacco in un elegante abito verde di raso. L’Albany di Antonio, con una maschera bianca da Principe orientale, era fantoccio insulso per la selvaggia Gonerill di Elena, ora inquietante geisha con una piccola maschera di legno ora sfacciata femmina moderna in costume da bagno che scaccia il padre ancheggiando sui tacchi. La Regan di Valentina strideva come un uccello marino, mentre la Cordelia di Fabrizia, lontanissima dalla virginale immagine di Francesca nel 1985, si sdoppiava nel Fool scugnizzo in camicia e pantaloni. Ansioso di riprendere il lavoro su Edmund con l’esperienza maturata in undici anni di lavoro, rimasi deluso quando Leo invertì l’assegnazione dei ruoli dei fratelli, ma durante le prove lui mi aiutò a scoprire il fascino straordinario del ‘bianco’ di Edgar, riflesso nell’abito e nella maschera con cui, sulle note del Requiem di Mozart, accompagnavo il vecchio padre sull’orlo dell’abisso immaginario. Per la trasformazione nel povero Tom, alla maschera bianca sostituivo quella scura dell’Arlecchino primitivo che aveva già dato il volto a Vongola in “Scaramouche”, e che avrei usato in spettacoli successivi, fino a sentirla come una mia seconda faccia. Per contro l’Edmund di Gino, erede del Tristano di “Scaramouche”, era un buffo traditore ingobbito, lontanissimo dal mio Edmund del 1985.
Il nuovo corso umano e artistico di Leo, il desiderio di bere unito al timore di compromettere l’equilibrio conquistato, la felicità creativa in opposizione al riaffiorare frequente di un umore cupo, lo resero autore di uno spettacolo bellissimo per la sua palpabile vitalità, nonostante le evidenti contraddizioni. Al “King Lear n.1” non seguirono le successive variazioni previste.
“Lear Opera” fu piuttosto una commistione con “Amleto” e con “La tempesta” e segnò il ritorno ad un magnifico rigore che rischiava però di sfiorare il manierismo.
Ho sempre pensato che nel ruolo di Lear Leo fosse eccelso… forse per una sua ‘affinità elettiva’ con il Re britannico? L’orgoglio di Leo richiedeva spesso adesioni incondizionate e lo aveva portato all’allontanamento di scomode Cordelie per circondarsi talvolta di persone sbagliate.
Si è molto parlato dell’ ‘eredità’ di Leo, ma io penso che la prosecuzione del suo teatro senza di lui fosse un’utopia. Il punto di riferimento era lui, non credo che abbia mai voluto un’altra possibilità del Teatro di Leo! La sua eredità è quella lasciata dalla sua grande lezione etica e artistica in coloro che hanno avuto la fortuna di lavorare al suo fianco, sviluppando poi ciascuno il proprio percorso. E credo che i grandi regni hanno termine con il tramonto dei grandi sovrani.

[pubblicato nel volume La terza vita di Leo, a cura di Claudio Meldolesi, Angela Malfitano, Laura Mariani, Titivillus, Corazzano (PI) 2010, pp- 133-138]