Temporalità e formazione
1. Temporalità e formazione: che importanza ha per te questo fenomeno nella formazione dell’attore/attrice?
Penso che nel processo di formazione attorale il concetto di “temporalità” sia fondamentale.
Il talento è una qualità innata che brucia le tappe e non ha bisogno di lunghe gestazioni, che appare limpida agli occhi di chi osserva e non ha regole. Ma la costruzione della competenza tecnica ed espressiva necessaria al sostegno e ad una piena valorizzazione di questo dono, così come il lavoro di esplorazione e sviluppo di talenti meno istintivi ma non per questo meno preziosi, richiedono una cura paziente e continuativa che può esplicarsi e rendere frutti soltanto in un tempo disteso. E per quanto, nella resa teatrale, darsi una scadenza è quanto mai opportuno per la conquista del risultato, è altrettanto vero che il lavoro concreto del teatro è una pratica artigianale, che richiede tempo, pazienza e fiducia.
Mi piace sempre pensare che è un po’ come coltivare un campo: un frutto colto acerbo non avrà mai il gusto di quello lasciato maturare il tempo giusto e nelle giuste condizioni.
2. Come dialogano tempo oggettivo (che scorre a prescindere) e tempo soggettivo nelle tue esperienze di formatore?
Il tempo “oggettivo” scorre appunto a prescindere e non può essere ignorato, in quanto scandisce fasi che determinano scadenze e modalità spesso indipendenti dalla nostra volontà. Il tempo “soggettivo” è invece quell’arco prezioso che varia da individuo a individuo e che non può essere arbitrariamente compresso e attestato ad una durata generica di comodo. Compito del formatore credo sia quindi quello di trovare un punto di incontro armonico tra queste due diverse temporalità, affinché la diversità della loro durata sia quanto più possibile minimizzata e condotta verso l’armonia. Faccio un banale esempio pratico: se sto preparando uno spettacolo e ho già fissato la data del debutto, il mio lavoro con l’attore deve ovviamente tenere conto del suo tempo ‘soggettivo’ per la migliore resa espressiva possibile, ma non può ignorare la scadenza predeterminata: cercherò quindi di ottenere dall’attore la migliore qualità possibile nel tempo imposto dalle condizioni, senza tuttavia rinunciare alla consapevolezza che, con un tempo ulteriore di lavoro, la resa di quell’attore potrebbe raggiungere un risultato più limpido.
E quindi – ove possibile – il lavoro di perfezionamento riprende e continua anche dopo il debutto.
3. Nel suo saggio “Il tempo vissuto”, lo psichiatra Minkowski dà due definizioni interessanti di condizioni a mio parere utili per gli allievi: attesa e desiderio. Li definisce così: l’attesa non è che un lampo, una sospensione istantanea della vita e il desiderio penetra nell’interiorità in una forma assai più prossima di quella dell’attività. Come ti rapporti con queste due definizioni: condivisione e utilità nei confronti della formazione teatrale?
Non saprei dare una definizione così certa di questi concetti. Penso che attesa e desiderio scorrano parallelamente in un percorso di formazione, se per “attesa” intendiamo il tempo necessario alla maturazione del risultato e per “desiderio” l’aspirazione a raggiungerlo nel più breve tempo possibile.
La condivisione, d’altro canto, più che utile credo sia addirittura indispensabile nella formazione teatrale, che non può avvenire in solitudine ma ha senso unicamente attraverso il confronto, prima con i compagni di lavoro e poi con il pubblico.
4. Come gestisci il tempo del singolo e il tempo del gruppo nel tuo percorso di formatore?
In una prima fase di lavoro, penso sia opportuno tenerli distinti, per quanto paralleli. Generalmente inizio il lavoro di formazione con un tempo collettivo, che ritengo molto utile alla definizione di un codice comune. In seguito dedico ai vari singoli un tempo individuale - e tuttavia non privato, ma esposto allo sguardo del gruppo - per cercare di comprendere e sviluppare quelle doti personali e uniche che andranno a convergere con le altre, arricchendo l’energia collettiva. Nelle esperienze più riuscite, arriva un punto in cui il tempo del singolo e quello del gruppo sono in totale armonia e quasi non si distinguono più.
5. Tempo e processo. Che relazione hanno per te? Hanno un collegamento con l’errore?
Credo di avere già risposto indirettamente a questa domanda con le considerazioni precedenti.
Aggiungo solo che l’errore non va fuggito o evitato per principio, perché talvolta può rivelarsi un autentico ‘toccasana’ e favorire una comprensione più vera e profonda della relazione tra tempo e processo.
6. Che rapporto hai con il tempo che scorre?
Cerco di avere un rapporto sereno con lo scorrere del tempo, forse non sempre ci riesco ma ci provo, perché sono convinto che sia più fruttuoso e più “sano” non temere questa fuga, che avviene comunque indipendentemente dalla nostra volontà e dal nostro piacere. Ed è indubitabile che, nel suo scorrere, il tempo produce, dimostra e muta. E temere il mutamento è disastroso perché non abbiamo scelta; mentre accettarlo ci può rivelare l’inatteso e il sorprendente, che sono il primo nutrimento della vitalità e della freschezza nel lavoro pratico del teatro.
7. Che cos’è per te il tempo?
È la possibilità di rivedere le proprie certezze e di aprirsi alla sorpresa e alla scoperta.
È un compagno di avventura e di vita, ma talvolta è anche un tiranno gelido con cui dover fare i conti. Sopra ogni altra cosa, però, è un dono prezioso dell’esistenza.