TORNANDO A SCARAMOUCHE
Quando fummo invitati a partecipare a
questa giornata, noi, del nucleo storico bolognese del Teatro di Leo,
pensammo ad un intervento collettivo che testimoniasse la forza di
un’esperienza che ancora ci unisce. Ognuno scelse un tema o uno
spettacolo. Per me fu Il ritorno di Scaramouche.
Ogni volta
che ci incontriamo siamo di nuovo compagnia, seppur lontani e diversi:
ritrovo una tribù che condivide linguaggi, visioni etiche e strumenti
che Leo ci aiutò a riconoscere e sviluppare e che reggono alla prova del
tempo. Abbiamo avuto una straordinaria palestra dove misurare libertà e
responsabilità, errori e scoperte. Mi sento parte di un libro che
nessuno scrive. I ricordi di ognuno si moltiplicano attraverso i ricordi
altrui come accade nelle veglie. Il nostro patrimonio di fatti e
conoscenze, arricchito dalla natura divertente, malinconica, equivoca,
autentica e fragile dell’aneddoto, sembra diventare parte della storia
misteriosa della nostra arte e ne ritroviamo il valore, dimenticato
nelle urgenze del presente. Il libro che siamo esiste, ma si esita a
scriverlo, per paura di sbiadire i particolari, per la difficoltà di
trovare una lingua che restituisca la tridimensionalità dell’esperienza,
per un vago ma persistente senso di inferiorità nei confronti della
storiografia più scientifica e ufficiale.
Eppure ancora oggi, dopo
tanti anni, mi capita di incontrare persone che, con una luce
particolare negli occhi, mi chiedono: «Tu sei la Morte, vero?». Era il
personaggio ridicolo e straziato che avevo scelto di mettere in
maschera. Dicono: «Ricordo Il ritorno di Scaramouche come fosse
ora, dopo averlo visto ho scelto di fare teatro, ho cambiato il mio modo
di vivere il teatro». Il libro che sogno ha già cominciato a scriversi
da solo, per frammenti. Attori, autori, capocomici, tecnici possono
contribuire con la loro voce.
La scarsa documentazione esistente è di poco aiuto: ho rivisto Il ritorno
solo una volta, in una ripresa di contrabbando – Leo non voleva riprese
video, le riteneva bugiarde – una camera fissa che vidi seduta sul
divano di Pupetto Castellaneta, via dell’Orsa, Roma. Ancora una volta
Leo aveva ragione: le nostre figurine erano fantasmi luminosi sullo
schermo, le voci suonavano lontane e povere, non restituivano nessuna
vera traduzione della magia dello spettacolo. Che miseria, che
delusione. Molto meglio il ricordo, seppure deformato dall’emotività e
dalla selezione individuale: un relitto vivo.
In quel tempo
sentivamo che stava accadendo qualcosa di speciale, percepivamo la forza
delle relazioni e della stratificazione dell’esperienza espressa in
ogni gesto, la potenza spinta al massimo di quel gioco folle e
vertiginoso, sospeso tra alto e basso, vita e teatro, che Leo ci
spingeva a praticare. Ne ritrovavamo le radici nella forza eversiva
della Commedia dell’Arte, nelle sue maschere senza riguardo e senza
padroni.
Ma c’era dell’altro, insieme al dispiegarsi della consueta
ma sempre sorprendente maestria nel montaggio, nella creazione delle
luci con Maurizio Viani, nella definizione di una scena nuda che evocava
mondi.
Cosa aveva visto la gente in noi? La potenza di una
compagnia che aveva condiviso per anni un linguaggio e un viaggio che
ora esplodeva nelle sue iridescenti rifrazioni, diverse per ognuno? Il
punto di passaggio tra Leo e noi, la parabola della crescita estrema
prima dell’esplosione e della dispersione? Il passaggio di età e di
coscienza di un uomo di genio, le maschere della Commedia dell’Arte che
tornavano dal passato portando ribellione, libertà, mistero?
C’era
tutta la struggente poesia del teatro che, come sempre, crea e disperde,
ma con un gesto poetico e distruttivo in più che ne aumentava il
fascino: la dissoluzione di una compagnia.
Forse il pubblico
sentiva, come noi, che si stava celebrando l’ultimo rito di un processo
di iniziazione che si sarebbe presto concluso. Eravamo ormai ricchi di
una forza invisibile che ancora non conoscevamo, nessuno era preparato a
edificare imperi, ma non avevamo necessità di farlo. Allora compresi
l’espressione “Leo dalle molte vite” e il valore della stratificazione
delle esperienze nella biografia di un artista: nel momento del
cambiamento riaffioravano il Leo di Roma, di Marigliano, il Leo di
Perla, con tutto il fascino e il carico della paura, della giovinezza e
della sua perdita, dell’alcol, della spinta all’autodistruzione,
all’irrisione, alla rivolta. Leo ci stava per abbandonare perché ognuno
andasse per la sua strada. Distruggere per creare. Eravamo all’apice nel
nostro percorso, sospeso tra pratica della libertà e rigore tecnico,
improvvisazione e scrittura, danza, musica e canto. Un percorso
cominciato per me dalle prime ricerche sul suono di Goneril in Re Lear,
dove con chitarroni giganti e microfoni davamo vita alla tempesta,
passando dall’invito di Leo a creare una drammaturgia originale su
musica di Coltrane, a partire da riflessioni scientifiche per Novecento e Mille, dalla scelta dello stato di coscienza – mai dire personaggio con lui! – chiamato Clitemnestra per Quintett, fino alla ricerca intorno a Gertrude madre di Amleto che mi ha accompagnato per tutto il viaggio nella compagnia.
Ora
Leo ci portava in viaggio nel tempo dentro la Commedia dell’Arte,
attraverso la sua capacità medianica di suggestione. Aveva immagini
potenti che diventavano prove, domande, improvvisazioni, tentativi di
scrittura personale, musiche, luci, spazio, immense aperture che quasi
ubriacavano. Studiammo le maschere cinque giorni a Cervia, d’inverno.
Tornammo e Leo disperse tutto quello che ci eravamo illusi di trovare.
Arrivarono le maschere di Perocco, e ognuno di noi fu libero di
scegliere le sue, inventandone gesti, voce e parole. La mia l’ho vista
per la prima volta sulla faccia di Gino e ho sperato che la rifiutasse.
Gliel’avrei strappata: la bautta, anonima, misteriosa, senza sesso,
spiritosa e assassina. E poi mi innamorai della maschera del medico
della peste.
Ero ossessionata dalla morte e dalla possibilità di
poterla addomesticare. Avevo studiato all’università i nuovi storici
francesi della quotidianità che mi parlavano di morte in pubblico e
morte solitaria. Ora che mi ero avvicinata al mondo della Commedia
dell’Arte o all’improvviso o degli istrioni, al tempo dei viaggi, dei
lasciapassare, delle insegne, dei canovacci, dei lazzi, delle corti,
trovavo la via per elaborare quelle riflessioni. Le maschere che mi
hanno liberato dal ruolo di madre che Leo mi aveva assegnato da quando
avevo ventitré anni, sono maschere di morte che non si portano di solito
in teatro, non maschili, non femminili. Portandole, ho provato cosa sia
la libertà da me stessa e dalla paura, ho praticato la follia
dell’invenzione. Leo raccoglieva le nostre creazioni e le magnificava
inserendole nel suo disegno. Ho potuto rinascere nuova nella mia stessa
compagnia.
Non avemmo coscienza della forza del lavoro se non di
fronte al pubblico. La prima prova aperta a Riolo Terme fu un’esaltante
rivelazione, poi ritrovata in molte città d’Italia: il pubblico ci
scriveva lettere, ci imitava nelle voci e nei gesti, ci aspettava
numeroso alla fine dello spettacolo.
Dello spettacolo mi restano le
fotografie di Marco Caselli Nirmal, niente manifesto, niente locandina.
Mi sembrava un segno di morte preoccuparmi di conservare questi arredi.
Ho
i fogli del copione, i miei appunti scarabocchiati e il libretto, una
sola copia. Per fortuna c’è, ma sembra morto: la drammaturgia scritta
non spiega la magia del teatro di Leo, proprio come le registrazioni.
Ho
una maglietta con la mia foto stampata, tutta sbiadita, che mi ha
regalato un macchinista della Fenice di Venezia l’autunno scorso dopo
averla a lungo portata, tanto era forte il mito di quel nostro lavoro.
Ho i programmi di sala che mi ha regalato chi li aveva custoditi con cura.
Ricordo
le musiche che Leo sceglieva per scatenare l’entusiasmo di ognuno e
delle quali ritrovo intatto il potere, gli esercizi che facevo ogni
giorno per conservare la velocità delle braccia necessaria alla
trasformazione finale in ali, sotto la luce di Maurizio Viani. Ho il
costume di velluto nero che mi è ritornato tra le mani dal magazzino del
Teatro San Leonardo, nel quale eravamo stati convocati all’improvviso
da qualcuno che voleva liberarsi di tutto. Di fronte alla mia
disperazione nel vedere disperse quelle povere cose che, pur senza
valore, avevano tutte un senso per noi, un ragazzo gentile si offrì di
caricare nel suo furgone quello che era destinato alla spazzatura perché
arrivasse in Romagna, dove lavoravamo. Tra gli stracci e la muffa, ecco
il mio costume nero di velluto di seta, il più bel vestito che io abbia
mai avuto, abito da cerimonia di un momento speciale e perfetto, dove
ero più che mai sola e più che mai vicina a Leo e ai miei.
Antonio Alveario, con la penna, i saltelli, la parrucca gialla, la ricerca vana degli alessandrini.
Pupetto Castellaneta che sale i gradini del palchetto per fare Biccia
la nutriccia. Cadrà? E lui come una volpe, sale e non cade, non cade
mai.
Marco Manchisi Pulci, Pulcinella, furbo, spiritoso, eppure facile da abbindolare, buono.
Francesca Mazza, la Vita, e basta questo per dire tutto della potenza della sua figura rossa.
Gino Paccagnella, chi può dimenticare la sua faccia con gli occhialoni di Tristano? La rivelazione della sua forza comica?
Marco
Sgrosso, Vongola tutto di velluto rosso bordeaux, inquietante, pauroso,
esilarante, potente, con le gambe di molla, lo spirito veloce.
Erano
tutti splendidi. Mentre li guardavo dalla panca, in scena, mi parevano
non umani, mitici, animali e dèi. Grazie a Leo, Scaramouche tornava dal
buio delle maschere della Commedia dell’Arte a insegnarci di nuovo lo
sberleffo unito all’inchino, la creazione senza freni, la ribellione
sorridente.
Se fossi ancora la Morte del Ritorno di Scaramouche,
se fossi ancora quello scheletrino con la maschera bianca e le scarpe
da ginnastica, che grazie a te saltava sul palco con la voce acuta, la
Morte malinconica che non capiva perché tutti la sfuggissero e che
provava schifo e pietà per gli umani, ti verrei a prendere dove sei e ti
riporterei indietro: allora sì che sarebbe il ritorno di Scaramouche,
sarebbe di nuovo Leo Pantalone che duellava con la sua stessa morte, che
ci conduceva in alto, sarebbe l’eleganza della tua voce, la battuta,
l’inchino e lo sberleffo. Io non sono più quella, ma come tu dicevi, il
tempo non esiste, e quindi, con uno sgambetto, torni lo stesso, un Fool
maestro dalla schiena dritta troppo presto dimenticato.
Torni anche
grazie alla tenacia di qualcuno, grazie a quella misteriosa scia di
memoria e di energia che non comanda, non ha padroni e resta.
pubblicato in Leo de Berardinis oggi, a cura di Laura Mariani e Cristina Valenti,
“Culture Teatrali” 28, Annale 2019