UNA DEDICA AI FUTURI
di Elena Bucci
Caro Palazzo San Giacomo, io non sapevo che il tuo ascendente su di me venisse anche dalla mia storia lontana e che mio padre fosse stato battezzato in quella chiesina.
Quando abbiamo riaperto le tue porte al pubblico volevamo soltanto che la gente, attraverso il teatro, ritrovasse la magia delle nostre campagne, il buio, il silenzio, il mistero di quelle finestre e di quelle porte tutte in fila, la poesia del tempo che passa, che, mentre rovina e guasta, allo stesso tempo disegna altre geometrie e altri spazi. Sempre che la materia prima sia buona. Quando Marco Sgrosso, Andrea de Luca ed io fondammo nel 1993 la compagnia Le belle bandiere e il Laboratorio teatrale permanente – già operativi dal 1991 - ci rendemmo conto che stava succedendo qualcosa di straordinario, una di quelle occasioni rare che catalizzano l’energia e la passione di molte persone - ragazzi che volevano imparare il teatro, fotografi, musicisti, pittori, artisti visivi, operatori culturali, politici, cittadini, studiosi, appassionati, di ogni censo, età, provenienza politica, cultura – per farle confluire in un solo progetto che in quel caso era il nostro. Allora avevamo un semplice scopo: offrire tutto quello che avevamo imparato a chi voleva apprenderlo, continuare a studiare e creare spettacoli praticando la massima accoglienza ed elasticità e una rigorosa disciplina che però non escludessero il piacere e il divertimento che l’arte può offrire.
Fu il noto assessore alla cultura di quegli anni a proporci di fare il nostro primo spettacolo – che aveva debuttato a Bologna nello Spazio della Memoria di Leo de Berardinis – a Russi, in quel Teatro Jolly che tanti progetti ha poi accolto. Tornata in Romagna, cominciai a guardare con altri occhi la mia terra, ne sentii la forza e la ricchezza e diedi inizio ai progetti con Marco Sgrosso, Andrea de Luca e tutto il gruppo gigantesco e formidabile che si formò intorno a noi.
Non soltanto facemmo il nostro spettacolo, ma organizzammo rassegne che portarono a Russi artisti magnifici che non erano mai stati in Emilia Romagna, preparammo laboratori, letture e spettacoli. Ma non bastava. Volevamo realizzare uno spettacolo per l’estate in un luogo speciale della memoria e dell’emozione. Il Teatro Comunale era una rovina in preda ai piccioni, ancora sbarrato, la Chiesina in Albis sfondata, l’Ex Macello chiuso e abbandonato. La nostra saletta, al secondo piano dell’allora Centro Culturale in via Cavour, era davvero troppo piccola, anche se ci facevamo le prove, stipati in trenta e più.
Nei nostri giri in cerca di luoghi, non mancava mai una puntata a Palazzo San Giacomo, austero e misterioso, chiuso e come offeso. Era il luogo delle passeggiate in bicicletta di giorno, degli spacciatori nel buio. C’erano ancora le impalcature di un vecchio cantiere di quindici anni prima. Pier Franco Ravaglia, che da subito aveva fotografato e amato il nostro lavoro, ci raccontava le disavventure di quel luogo da lui e da molti tanto amato. Ci spiegava come la prima ristrutturazione per il consolidamento avesse rimosso le finestre di fortuna che avevano costruito gli abitanti senza poi sostituirle, dando il via ad un processo di degrado degli affreschi che non si era più fermato fino alla recente ripresa dei lavori, di come ci vissero i pittori, a partire da Mattia Moreni, di quanto quel luogo fosse caro a tutti, come un segno lasciato dalla storia alla campagna. E là visse il nostro progetto speciale estivo con il Laboratorio teatrale permanente, ‘Le finestre dei giorni’: un laboratorio di alcuni mesi e uno spettacolo. Qualcuno era scettico per la distanza e le difficoltà, ma noi fummo sempre più decisi, appoggiati dall’Amministrazione Comunale. Cominciai a studiare meglio le raccolte di favole di Ermanno Silvestroni e gli studi sulla Romagna di Eraldo Baldini. Riprendemmo in mano la storia di Russi e del Palazzo e la innestammo su favole e racconti inventati creando una drammaturgia originale.
Il mazapegul, folletto dal cappello rosso dispettoso e arguto prese per mano il cantastorie, figure storiche andavano a braccetto a personaggi immaginari, il dialetto si alternava all’italiano e alle lingue inventate, mentre risuonavano i canti. Non avevamo acqua, bagni, luce, non avevamo niente. Il Comune, le Scuole, il Teatro Jolly ci aiutarono a mettere insieme l’attrezzatura. I noleggi erano quasi regalati. Quante persone si entusiasmarono e ci aiutarono. Promettemmo di non entrare nel palazzo e di usare soltanto la parte antistante. Ma come resistere? entrammo immediatamente, con la promessa di stare molto attenti. Erano tempi selvatici, erano tempi di libertà. Ognuno era dovutamente in regola, ma di certo oltrepassammo i limiti. La passione era più forte, ma anche l’indulgenza delle istituzioni resistette. Quante notti, quante ore, quanti istanti senza tempo. Ci stabilimmo al Palazzo e aspettavamo che gli attori amatori potessero venire alle prove. Il camper duetrentotto di Andrea De Luca era il nostro presidio. I contadini, contenti della sparizione degli spacciatori, ci portavano acqua, vino, frutta. Ci prestarono anche il trattore per i trasporti. Lo guidavo io, così nessun altro rischiava. Mia mamma portava cesti di cotolette, ognuno aggiungeva viveri e bevande. Arrivarono amici dal Piemonte che avevano sentito parlare di noi e ci aiutarono a creare i parcheggi (i cortili della gente) con i cartelli di pericolo fatti a forma di zanzara. Una notte tarda eravamo rimasti in pochi e il Palazzo urlò. Era il terremoto. Si avvicinava il giorno del debutto e la Sovrintendenza, nonostante i viaggi con il Sindaco a Ravenna, non scioglieva il suo parere. Arrivò un telegramma il giorno prima, ma nessuno, per fortuna, lo trovò. E ora le domande. Sarebbe arrivato qualcuno? Il tempo avrebbe tenuto? Sarebbe piaciuto?
Alle 20 e 45 del 3 luglio 1993 un attore, che aveva il suo camerino in una torretta, mi chiama urlando ‘c’è un fiume di gente che arriva verso di noi dal viale!’. Era vero. Finirono i posti della piccola gradinata, finirono le sedie e anche le stuoie. Pier Franco aprì la chiesina e portò fuori tutte le panche. Arrivò Don Silvano ormai Vescovo dal rivale del fiume, arrivò Leo de Berardinis, il nostro maestro, arrivarono anche tanti altri. Alcuni si portarono le sedie pieghevoli da casa. Dopo tre meravigliose repliche tutto finì e si scatenò un temporale gigantesco, come se il Palazzo piangesse.
Quando affrontai il mio studio su Eleonora Duse, straordinaria e coraggiosa attrice, regista e capocomica che mi ha aiutato a capire chi sono, ero appena uscita dalla compagnia del mio maestro per dedicarmi alla mia compagnia. Andai proprio là, nel Palazzo, con i miei amici tecnici. La mia Duse passeggiava per quelle stanze animate da misteriose presenze e piano piano il testo cresceva e diventava anche la mia dedica al teatro, alla magia dei luoghi e dell’amicizia. Un grandissimo temporale arrivò anche alla fine del mio debutto al Palazzo, circondata da amici e da affettuosi studiosi. I vigili arrivarono di corsa insospettiti dalle luci e l’allarme finì a vino e piadina. Non pensavo che questo viaggio sarebbe diventato uno spettacolo e invece mi accompagna ancora oggi, da Mosca a Roma a Milano.
Poi ci dedicammo a risvegliare gli spazi in città: si susseguirono le scoperte di molti spazi, dalle nostre false riaperture del Teatro Comunale in forma di spettacolo all’apertura vera, dalle rassegne nella Chiesina in Albis ai primi allestimenti dell’Ex Macello. Si moltiplicavano anche le occasioni di lavoro fuori, ma non svaniva la passione. Nel 2004 girammo nel Palazzo un film che ancora nessuno ha visto: ‘Canti per elefanti’. Sarà montato nel corso del prossimo anno. Nel 2006 ci fu un progetto che collegava il Palazzo a tanti altri eventi su tutto il territorio nazionale: ‘La città del sonno’. Immaginavamo un mondo nel quale il sogno e il sonno fossero importanti quanto la veglia al fine di rigenerare i rapporti e il piacere della vita, anche attraverso la comunicazione tra le arti. La scuola di Fossolo divenne il quartier generale e il Palazzo il punto di ritrovo finale di tutti gli artisti: musicisti, pittori, cineasti, fotografi, attori, performer, danzatori, gli attori del Laboratorio teatrale permanente. Ogni stanza era abitata da un artista e un gruppo di attori guidava il pubblico lungo tutti i piani fino alle torrette, da dove tutti insieme si scopriva l’orizzonte. Un’emozione straordinaria. Poi un silenzio. Molto lavoro fuori, forse qualche malinteso. Ma non poteva durare.
Nel 2012 eccoci di nuovo nel Palazzo con attori, tecnici e appassionati e il desiderio di trasformarlo in un luogo di studio e ispirazione. Lo abbiamo ritrovato accogliente, pulito, ordinato, curato: la Pro Loco ne aveva fatto un luogo di progetti, visite, aperture al pubblico. Ci siamo trovati vicini in un unico intento vitale. Tutti i progetti da quel momento sono stati dedicati all’amico generoso Pier Franco Ravaglia. La nostra compagnia stava cambiando e crescendo, i tempi diventavano sempre più difficili per la nostra arte e ancora una volta cercavamo entusiasmo ed energia nelle nostre radici felici. Ho visto crescere e splendere molti talenti generosi e brillanti in quel Palazzo e ancora, alla fine di ogni esperienza, ci accorgiamo di avere scoperto qualcosa di nuovo insieme ai compagni di strada e al pubblico. Ed ecco ‘Sonhos’ con la sua Odissea, ‘Smemorantide’, ‘Intorno a Macbeth’, tutti dedicati alla comunicazione tra le diverse arti e tra le generazioni, al rapporto vivo tra memoria, storia e il presente, alla riscoperta della tradizione attraverso nuovi linguaggi e ad un sempre rinnovato e intenso piacere nel ritrovare la cultura e lo spirito del proprio luogo per metterli in relazione aperta con il mondo intero. Ogni volta apriamo le prove al pubblico, facciamo un laboratorio di preparazione, apparecchiamo un tavolo sotto l’albero con frutta, cibo e vino, poi spegniamo la luce e aspettiamo che arrivi la gente per vivere insieme la magia. Perché tutto questo accada, ancora non sappiamo.
E per questo, ogni volta, torniamo.
L’archivio vivo e la biblioteca dei ricordi
Ho nominato soltanto poche persone per non fare torto a nessuno: i fondatori della compagnia e coloro che non ci sono più. Potete trovare i nomi dei partecipanti nei nostri materiali cartacei nella Sala Nomadea dove stiamo creando un Archivio Vivo e sul sito www.lebellebandiere.it. Speriamo che presto sia ultimato il racconto della nostra storia in Romagna che verrà scritta e rappresentata a partire dal 2017 con l’aiuto di studiosi, testimoni, amici e degli attori e autori del Laboratorio teatrale permanente di Romagna.
Rivolgiamo anche un appello a tutti coloro che hanno seguito e amato il nostro lavoro e a tutti coloro che custodiscono nella memoria canti, fatti, racconti: nella Sala Nomadea, in via Giordano Bruno, stiamo raccogliendo scritti e testimonianze. Chi non vuole scrivere ma preferisce registrare, non deve fare altro che comunicarcelo e prendere un appuntamento con Nicoletta Fabbri, che partecipa al lavoro della compagnia come autrice, attrice e come sostegno ai progetti e all’organizzazione.
Siamo curiosi e rispettosi di quanto della vita rimane impigliato nella memoria in forma di ricordo e suono e pensiamo che sia un patrimonio da lasciare al futuro. Visto che la trasmissione da persona a persona non avviene più tanto spesso, lo facciamo attraverso le registrazioni, da ascoltare magari insieme, ricominciando a parlare, a cantare, a ricordare insieme a chi c’è anche chi non c’ è più.
(pubblicato su Ross Zétar d'Rumagna, n. 98, 1-3-2017)