ELLA

di Herbert Achternbusch
regia e interpretazione Marco Sgrosso

traduzione Luisa Gazzerro Righi - scene Carluccio Rossi  - luci e suono Loredana Oddone - immagini di percorso Aleksandra Pawloff

produzione Le belle bandiere

debutto: 8 agosto 2001 - Festival Internazionale di Montalcino e della Val d'Orcia
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Questo spettacolo mi è particolarmente caro. Dopo molti anni di lavoro in “compagnia”, prima nel gruppo di Leo, poi negli spettacoli creati assieme ad Elena Bucci e nell’avventura a “otto” mani con Enzo Vetrano e Stefano Randisi, ho sentito la necessità di un momento di lavoro in ‘solitudine’, per ritrovare memorie ed emozioni che fioriscono solo nell’intimità, per mettermi alla prova con me stesso. Ho scelto questo testo – bellissimo – di Achternbusch perché mi ossessionava da molto tempo e perché mi sembra che richieda un completo abbandono delle cinture di sicurezza.

«… io ho sempre una storia semplice, ma racconto in modo così fantastico e forte e tenero ed esecrante e ardente e bisognoso d'amore che vi si ritrova un lembo di vita...» (Herbert Achternbusch)

Quando ho letto “Ella” per la prima volta sono stato immediatamente ‘sedotto’ dalla potenza della scrittura di Achternbusch, fisicamente ed emotivamente attratto dal senso di lacerazione di questa confessione crudele, che pure a tratti mi appare dolcissima. 
È stata un’adesione istantanea, fatta di stupore e di necessità. 
Dal tempo di quella prima lettura, ho sempre ripensato ad “Ella” come a una irresistibile occasione di confronto e di sfida, prima di tutto con me stesso e con la mia memoria.
Per me, “Ella” è nostalgia, e mi sembra che leggere e rileggere quelle parole sia un po’ come urlare da soli, fa male ma fa anche bene…
Attraverso il flusso inarrestabile ed estenuante di una memoria sgangherata ma lucidissima nei dettagli, Josef/Ella rivive umiliazioni e violenze in una dimensione allucinata dove il racconto della propria vita assume quasi le valenze di una confessione, estorta ma necessaria.
Ho visto in Josef un angelo bianco irrimediabilmente insozzato, in Ella una creatura sfacciata e grottesca precipitata in uno squallore straziante.
Ho immaginato una sorta di ring, uno spazio costretto ed imploso, come il pollaio, le celle e tutte le stanze chiuse in cui questo ibrido di uomo/donna trascorre tanta parte della sua vita.
Ho sentito il vuoto di chi perde le radici, come uno smarrimento da immigrati in una terra ostile.
E, non so perché, ho pensato con ricorrente insistenza alle figure di Egon Schiele, alle loro espressioni allucinate e spigolose, al dolore dei loro corpi nodosi, alla loro bellezza rabbiosa, a quella irrinunciabile scomodità esistenziale oltre che fisica.
Ho sentito il linguaggio continuamente interrotto ed insidiato di Achternbusch come una partitura sonora da sporcare con inflessioni umorali e dialettali, perché mi è sembrato che l’uso di una lingua “impura” potesse meglio restituire l’umanità dolorosa e plebea di questo Figlio e di questa Madre “strappati”.
Sono ritornato alla memoria di mia madre con una intensità dolce e dolorosa, mi sono commosso in una dimensione preziosa di solitudine volontaria, sono affondato in una nostalgia ‘aperta’, che mi ha restituito il sapore insostituibile delle radici, mi sono travestito con parruccazza grigia e sottoveste, sono salito su un paio di tacchi scomodi e crudeli, mi sono attaccato alle spalle due buffe alette da pollo, mi sono stupito del piacere curioso di sentire l’aria fresca tra le cosce sotto un abituccio inconsueto, ho sofferto la calura di agosto chiuso in una sala prove che non mi dava risposte immediate.
Carluccio mi ha costruito un nido caldo e ostico, Loredana mi ha seguito e confortato con le sue luci, ho ritrovato il bambino che ero, ho ritrovato Dalida e Bang Bang e nel flusso rovinoso delle parole di Achternbusch ho sfiorato così tante emozioni da sentirmi contento di esistere, e grato...
… dedicato a mia madre…


foto Pier Franco Ravaglia

 
 
 
foto Umberto Favretto